mercoledì 10 dicembre 2014

Luigi Zingales - Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire -Rizzoli

Di libri sull’Europa e l’euro ne sono stati scritti molti, questo di Luigi Zingales, economista italiano che insegna negli Stati Uniti a Chicago, merita di essere letto. 
Nella prima parte del libro, Zingales fa una sintesi della storia dell’Unione Europea e dell’euro, mostrandoci come accanto a nobili motivazioni ideali ci sono stati interessi ben più prosaici e pratici nel disegno dell’attuale situazione europea. 
Successivamente analizza i pro e i contro della unione monetaria evidenziando i notevoli rischi impliciti nella sua nascita, soprattutto nelle sue modalità di attuazione, frutto di un brutto compromesso tra le esigenze delle due principali nazioni: la Francia e la Germania. Per l’Italia, legarsi mani e piedi all’albero dell’Europa e dell’euro, ha avuto alcuni vantaggi ma senz’altro ha diminuito i gradi di libertà rappresentati da una autonoma politica monetaria. Per l’autore, viste le premesse di come si è realizzata l’unione monetaria, tale costruzione è estremamente fragile e cosi come è non può che finire male se non si ricorre rapidamente ad una serie di modifiche profonde, e l’autore indica alcune proposte in merito. Infine, forse a dimostrazione che in fondo anche Zingales non è convinto che l’euro sia riformabile, analizza il piano B ovvero le modalità migliori per uscire dall’euro per l’Italia e le sue possibili conseguenze.
Nella parte finale, comunque, indica che il problema di fondo dell’Italia non è l’euro, ma la mancanza di crescita della produttività degli ultimi venti anni, di cui indica alcune possibili cause. 
Il libro complessivamente mi è piaciuto per lo stile chiaro e un certo equilibrio nelle sue posizioni che sono, comunque, quelle di un economista liberista. Sono d’accordo con l’autore che il problema dell’Italia non sia solo l’euro, che comunque ha delle colpe rilevanti, ma della mancata crescita della produttività, ritengo tuttavia che non abbia approfondito il tema. Credo, infatti, che le motivazioni siano molto più complesse e legate anche ad un mancato rinnovamento delle classi dirigenti italiane (politiche, imprenditoriali, sindacali, ecc.) che hanno perso la capacità di progettare e assistere il cambiamento e, di fatto, bloccato la possibilità rinnovamento della società italiana, impedendole di adattarsi in maniera adeguata al profondo cambiamento tecnologico e di mercato che si è verificato negli ultimi 30 anni.

mercoledì 3 dicembre 2014

Giorgio Ruffolo - Il capitalismo ha i secoli contati

Il libro che presentiamo oggi è: Il capitalismo ha i secoli contati, di Giorgio Ruffolo-Einaudi. L’autore è un economista che ha scritto diversi saggi su temi economici ed è stato anche Ministro dell’ambiente.
 Nella prima parte del libro ripercorre sinteticamente la storia dei sistemi economici, a partire dalle civiltà mesopotamiche passando per l’Impero romano sino ad arrivare ai giorni nostri con la supremazia degli USA. Nella  seconda parte  mette in evidenza quali sono gli aspetti critici dell’attuale capitalismo. In particolare sono la insostenibilità, cioè il rischio di uno sfruttamento assurdo di risorse limitate con conseguenti disastri ecologici. La globalizzazione, estensione del sistema capitalistico a tutta la scena mondiale e le sue conseguenze negative: lo strapotere delle Corporations e la progressiva concentrazione delle ricchezze in pochi soggetti. La privatizzazione, ovvero il costante trasferimento alla sfera privata di settori pubblici e conseguente declino dei beni collettivi. La "finanziarizzazione" che ha comportato il vertiginoso aumento degli strumenti finanziari con la crescita della speculazione e della inclinazione al rischio. La demoralizzazione, cioè il costante decadimento dei valori etici rappresentato dai casi clamorosi come la Enron, con invece, spesso, la  esaltazione di valori come avidità ed egoismo. Nell’ultima parte fa alcune considerazioni, più che pratiche direi filosofiche, in cui cita vari autori sulle possibili vie di uscita dalla situazione presente. Nel complesso è un libro scritto in maniera semplice e piacevole e, seppur con molte citazioni, scorre molto bene e ha il  pregio, a volte raro,  della sintesi. 

giovedì 27 novembre 2014

Commento alle elezioni regionali

Per quanto riguarda le elezioni regionali un elevato livello di astensione era prevedibile, certo i numeri dell’astensionismo in Emilia sono impressionanti. D’altra parte perché gli elettori dovrebbero essere spinti a votare data la situazione politica veramente deludente? Chi ha votato Grillo, soprattutto alle politiche, non può non essere scontento, le speranze, a mio parere un po’ malriposte, nelle capacità del Movimento 5 stelle di rappresentare un vero cambiamento sono andate deluse, Grillo si è mostrato inizialmente molto bravo a raccogliere voti ma pessimo nel gestirli. Forte di un 25% di consensi doveva fare diversamente, gli Italiani che lo hanno votato speravano in un profondo cambiamento ma il suo atteggiamento assolutamente poco costruttivo, la politica è arte del compromesso, ha ottenuto solo qua e là qualche risultato. Non sorprende neanche   il successo di Salvini dove si sono riversati i voti degli scontenti di  Grillo, di Forza Italia e anche del PD. Salvini è stato bravo nell’intercettare i voti degli  scontenti, sul suo programma politico non mi soffermo non merita molti commenti. Chi perde, anche se non vuol ammetterlo è Renzi. Il suo governo dopo grandi proclami e parole è molto deludente. Le sue riforme istituzionali non mi piacciono,  il mio punto di vista è che  si doveva impostarle con una Camera e Senato entrambi  elettivi con due leggi elettorali separate, comunque in linea di quanto indicato dalla Corte Costituzionale, una più maggioritaria alla Camera e una più proporzionale al Senato, con una forte riduzione degli eletti. Le due camere dovrebbero avere compiti nettamente separati, con il parlamento unico  deputato alla fiducia all'esecutivo, di proposte in questo senso ( vedi post di Zagrebelsky)  se ne possono trovare in giro molte. Credo che con una piattaforma del genere, cercando i contributi di tutti, si poteva arrivare ad una riforma largamente condivisa  senza bisogno di fare accordi del Nazareno. Sul lavoro, ripeto come già ampiamente detto ( vedi post su art.18), non  ha nessuna valenza  continuare a ridurre i diritti se questo non  porta nuova occupazione. Peraltro  ci vorrebbe  una profonda revisione degli incentivi alle imprese, di cui una buon parte sprecati, per concentrarsi su misure che spingano   maggiormente gli investimenti, in particolare in ricerca, e interventi che favoriscano chi assume  realmente. Ci vorrebbe anche una serie riforma della giustizia civile con una partecipazione in questo della Magistratura, di cui non condivido certi arroccamenti, ma che comunque merita rispetto avendo tanto  dato in termini di uomini  allo Stato e alla sua difesa. Ancora non vedo un vero piano di riforma della macchina burocratica, elefantiaca  e arretrata, dove ci vorrebbe l’inserimento, inoltre, di forze nuove e giovanili per rinnovarla. E importantissima sarebbe  una revisione delle modalità di spesa pubblica ancora distribuita in troppi  ed inutili rivoli, con  spreco di risorse utilizzabili per rilanciare l’economia e con  ruberie a tutti i livelli. Per ultimo la politica europea, anche qui a parole Renzi è sembrato un leone, in pratica la legge di  stabilità rispetta il limite del 3%, che tra parentesi non ha alcuna valenza si carattere scientifico, e la sua è una manovra quindi fintamente espansiva; anche qui poteva giocare un ruolo più importante, visto che si vanta del 41% ottenuto alle europee, non mi pare infatti che abbia fatto molto per fare da catalizzatore con gli altri premier per tentare di ribilanciare, in senso espansivo, le politiche europee. In conclusione, per quanto gli Italiani siano un popolo che tendenzialmente si fa infinocchiare da imbonitori di vario tipo, ciò nonostante credo che ci sia, all’interno del paese, una maggioranza di persone ragionevoli che si rende conto che la situazione è grave e quindi ci sia bisogno di un profondo rinnovamento, anche se bisogna rendersi conto che per molti significherà fare un passo indietro anche perché di rendite di posizione a vario titolo, da quelle grandi a quelle piccole, in Italia ce ne sono ormai troppe. Il problema è che al momento non vedo leadership adeguate  in giro in grado di farsi carico del problema.

mercoledì 19 novembre 2014

A proposito di crescita

Oggi parliamo di crescita, in realtà sarebbe meglio parlare di sviluppo, che è un termine più generale, mentre per crescita si intende principalmente l’aspetto quantitativo, ma è sicuramente più semplice da trattare  e quindi parleremo di crescita del PIL. L’analisi che segue non è una vera analisi economica seria, è una specie di provocazione, un ragionamento per assurdo e al limite, molto rozzo e semplificato, che vuol essere solo di stimolo per intuire alcune tendenze data  la complessità e interdipendenza tra vari aspetti in un sistema economico. Si tratta di ragionamenti al limite ovviamente molto teorici e non realistici ma, visto che i ragionamenti al limite si usano in matematica, spero  che possa servire per capire appunto  certi rischi  di fondo. 
Partiamo dalle definizioni, il prodotto lordo è fatto di tre cose fondamentali: consumi privati, investimenti privati e spesa pubblica. Trascuriamo al momento il saldo netto tra esportazioni ed importazioni, per semplicità di ragionamento ma alla fine ci tornerò, volendo potremmo ritenere le seguenti considerazioni valide per l’intera economia, dove appunto, il saldo export-import è zero visto che non commerciamo con qualche paese extraterrestre. 
Da un punto di vista dei percettori di reddito lo stesso prodotto si divide tra salari, profitti e tasse, avendo infatti considerato salari e profitti al netto delle tasse.  
Per semplicità riportiamo tutto in sintesi: Y=C+I+G e Y=W+P ma anche Yd (reddito disponibile) =W+P-T; 
dove Y è il prodotto lordo, C sono i consumi, I gli investimenti e G, la spesa pubblica, nella prima relazione mentre nella seconda abbiamo P sono i profitti, W (W sta per wages) i salari e T le tasse. Adesso immaginiamo di essere in un periodo normale dove il prodotto cresce, al momento non ci chiediamo perché, quindi diciamo che da un periodo al successivo abbiamo una crescita del prodotto, che indichiamo come ∆Y (incremento di prodotto). Adesso facciamo la prima ipotesi, ovviamente esagerata e al limite, supponiamo che i percettori di profitti, per semplicità li chiamiamo "capitalisti", siano molto forti e, quindi, siano in grado di appropriarsi dell’incremento di prodotto e quindi ∆Y→∆P,  ipotizziamo pure che scelgano, ipotesi comunque non proprio campata in aria, di dedicare  questo extra profitto in investimenti piuttosto che in consumi, cioè   ∆P→∆I.
Un incremento di investimenti, ad es, acquisto/sostituzioni di macchinari,  in genere aumenta il prodotto e la produttività, quindi ci aspettiamo un ulteriore incremento di prodotto. Supponiamo che questo ulteriore incremento di prodotto produca lo stesso ciclo di prima, incremento di profitti e quindi incremento investimenti. A lungo andare questo sistema non funziona perché non avremmo un incremento di consumi che assorba l’incremento di prodotto e senza contare che avremmo anche problemi di uno Stato che non può permettersi, ad esempio, di aumentare le infrastrutture/servizi pubblici. Dunque questa serie di ipotesi, ovviamente assolutamente irrealistiche, ci dice che un modello capitalista o "offertista" puro non funzionerebbe. Anche se a livello di singolo capitalista potrebbe convenire non converrebbe a livello di società intera. 
Viceversa immaginiamo un modello statalista puro, dove lo Stato si appropriasse  di tutto l’incremento di prodotto, quindi  ∆Y →∆T, e questo vada ad alimentare la spesa pubblica ∆T →∆G. Anche in questo caso, se proseguiamo con altri cicli simili, il risultato è che avremmo, sicuramente, magari più infrastrutture pubbliche ma senza investimenti privati, a lungo andare, non avremo molti incrementi di prodotto (i modelli di completa statalizzazione della produzione non mi pare che alla lunga abbiano funzionato) e quindi anche in questo caso un modello statalista puro, per quanto vogliate essere dei politici/burocrati bravi, alla fine non funziona. 
Infine, in teoria, ci sarebbe il caso, ancora meno realistico, in cui i lavoratori e sindacati siano talmente forti che tutto l’extra prodotto   finisca ai lavoratori, in questo caso si avrebbe sostanzialmente un incremento dei salari che si traduce in incremento di consumi,  ∆Y →∆W e ∆W →∆C, anche qui alla lunga non avremo né incremento di prodotto né incremento di infrastrutture/servizi pubblici. Insomma, anche se l’analisi è molto rozza, irrealistica e semplicistica, la realtà infatti e molto più complicata, non abbiamo citato, ad esempio, né il ruolo della moneta né del sistema finanziario, spero  che, almeno in parte,  vi abbia convinto che, siate voi capitalisti,  lavoratori o burocrati, forse come cittadini dovreste avere  convenienza che  il prodotto cresca, e che cresca in maniera più o meno equilibrata nelle tre componenti. Ovviamente è difficile stabilire quale sia il mix perfetto in termini quantitativi, quello che posso cercare di dire è come, a livello qualitativo,  la teoria economica dice che dovrebbero comportarsi le tre componenti. I "capitalisti" dovrebbero investire soprattutto nella economia reale per migliorare i loro prodotti e processi produttivi, soprattutto attraverso il sapiente uso della tecnologia. Della funzione degli imprenditori e delle innovazioni ne ha parlato molto Schumpeter, con la sua famosa "distruzione creatrice", ma anche Keynes quando parlava dei cosiddetti «animal spirits» del capitalismo. Inoltre tutti i modelli di crescita (Harrod-Domar, Solow, Roemer) evidenziano   l'importanza nella crescita degli investimenti e dello sviluppo tecnologico. Il ruolo dello Stato è ancora più complesso, perché, oltre a garantire certi servizi (ad es. sicurezza, difesa e aggiungo anche sanità e istruzione), dovrebbe garantire gli investimenti in tutte quelle infrastrutture dove abbiamo i cosiddetti limiti dei "fallimenti del mercato", sopratutto nei momenti di crisi e calo degli investimenti privati: "la responsabilità del livello corrente degli investimenti non può, senza pericolo, essere lasciata  in mano dei privati" (Keynes), e ancora spendere in ricerca in modo da generare "esternalità positive" al sistema paese (vedi Lo Stato innovatore della Mazzuccato), e anche aiutare le fasce più deboli con una redistribuzione del reddito per stimolare anche i consumi (vedi Il prezzo della diseguaglianza di Stiglitz). Inoltre, lo Stato dovrebbe anche aver una funzione di regolamentazione del mercato per garantirne il corretto funzionamento, come anche quello del sistema monetario e finanziario. Come cittadini, anche se potrebbe a livello di singolo essere comodo evadere,  dovreste cercare di pagare le tasse (assumendo che le tasse siano normali) altrimenti se tutti noi non le pagassimo non funzionerebbe lo Stato (T=0); inoltre sarebbe bene che eleggessimo i nostri politici per far fare allo Stato quello che dovrebbe e non magari solo i nostri interessi. Come si  vede la realtà economico e sociale  è molto complessa e farla funzionare bene è impresa difficile che non si può ridurre semplicisticamente alla "mano invisibile" o al  "mercato" o al solo Stato. Inoltre abbiamo parlato di crescita e, ammesso anche che tutto funzioni a perfezione, dovremmo anche porci il problema di  quale tipo di crescita sostenere, tenendo presente che le risorse sono comunque limitate.  Anche l'ambiente e il clima risentono di un certo tipo di sviluppo, anche se alcuni lo negano, un maggiore impegno a far si che lo sviluppo sia più razionale, meno sprecone di risorse e compatibile con l'equilibrio ecologico del pianeta credo sia un obiettivo da perseguire.  La realtà è estremamente complicata  e avremmo bisogno di cittadini più consapevoli e che siano rappresentati da politici più preparati ad affrontare nel modo migliore la sfida della crescita.

P.S. Per quanto riguarda il saldo import/export è vero che una singola nazione potrebbe sfruttare il saldo positivo per compensare la carenza di domanda. Ma, come detto, questo a livello totale non funziona, secondo se sfrutto la domanda degli altri questo squilibrio può durare, di norma, solo per un certo periodo di tempo, tra l'altro generando degli squilibri al mio interno su come si redistribuisce il prodotto (ad es. più profitti e meno salari). 

lunedì 10 novembre 2014

Naomi Klein - Shock economy

Naomi Klein, è una nota giornalista USA, che ha raggiunto una fama mondiale con il libro, No Logo, sulle politiche non proprio cristalline, industriali e commerciali, dei grandi brand internazionali. In questo libro si cimenta su temi più squisitamente di carattere economico e sociale. In particolare nel libro ricostruisce una serie di situazioni di shock che provocate/subite sarebbero alla base di politiche di arricchimento di grandi gruppi economici. In primo luogo analizza la storia di alcuni paesi sudamericani (Cile, Bolivia, Argentina)  che, con la salita al potere per lo più di dittatori spalleggiati dagli USA, hanno applicato terapie economiche shock di natura iper-liberista che hanno provocato una forte diseguaglianza e sofferenza  sociale con grossi  guadagni invece  per alcune multinazionali. 
L’autrice si sofferma poi sul ruolo degli Usa e del FMI (Fondo Monetario Internazionale) sul passaggio dal sistema comunista al libero mercato nella Russia di Eltsin con le gravi sofferenze subite dai cittadini. Altri shock economici sono stati inoltre inferti ai paesi del sud est asiatico dalle politiche, sempre iper-liberiste imposte dal FMI, che hanno anche qui generato gravi situazioni sociali  nei paesi che le hanno applicate e che poi se ne sono, in alcuni casi, affrancati. Ulteriore esempio di shock economico sociale è rappresentato dalla guerra in Iraq, dove si è sfruttata l’occasione per permettere lauti guadagni alle aziende americane, con pesanti interessi nelle figure dell’amministrazione Bush, che hanno operato nella difesa e nei servizi (vedi anche Shadow Elite). Infine, l’ultimo esempio negativo evidenziato dall’autrice, è quello dell’uragano Katrina a New Orleans, shock naturale,  dove anche qui si sono privilegiati gli interessi di pochi e di alcune aziende a svantaggio della comunità. 
Per quanto riguarda il giudizio sul libro, pur essendo molto ben documentato e abbia uno piacevole stile giornalistico, ritengo che la lunghezza, oltre 500 pagine, sia eccessiva  e pertanto sia ridondante e ripetitivo in alcune parti. Inoltre, mi pare anche eccessivo il peso di colpe dato alla Scuola di Chicago e Friedman che, comunque e senza dubbio,  hanno fornito  le argomentazioni teoriche ed economiche alle scellerate politiche attuate. Infine, la ricostruzione sulle colpe del FMI e Banca Mondiale si trovano  più dettagliate e direi convincenti nei libri di Stiglitz. Complessivamente, comunque,  un  libro interessante e istruttivo se non vi fate  spaventare dalla sua voluminosità.

venerdì 24 ottobre 2014

Robert Reich - Supercapitalismo

Il libro di cui parliamo oggi è  Supercapitalismo (Fazi editore) di Robert Reich, economista dell’Università di Berkeley, ex Segretario del Lavoro di Clinton e anche consigliere di Barack Obama. 
Nel libro l’autore presenta una ricostruzione, molto ben documentata, sulla evoluzione del capitalismo, soprattutto USA  dal dopoguerra ad oggi, che lo trasforma in quello che appunto lui definisce “supercapitalismo”. 
Nel dopoguerra, periodo che l’autore definisce “età proprio non dell’oro” per sottolineare un epoca positiva ma anche con alcune ombre, si concretizza un certo equilibrio tra democrazia e capitalismo. Infatti il mercato è caratterizzato da una moderata competizione internazionale e quindi da poche imprese oligopolistiche che, quindi, riescono a spuntare dei prezzi che gli consentono adeguati  profitti, ma  la presenza di un forte Stato nazionale e anche la forza dei sindacati garantisce che anche l’occupazione e i salari aumentino  con conseguente crescita di una classe media. Questo equilibrio che ha i suoi difetti per il consumatore, minore possibilità di scelta, si spezza a partire dagli anni 70. Le cause di questo sono molteplici e interdipendenti. Tra queste cause ci sono: la evoluzione tecnologica, l’aumento della globalizzazione e concorrenza internazionale. Ci sono anche componenti più ideologiche e politiche, come l’affermazione delle teorie liberiste e la loro adozione da parte di politici (Reagan e Thatchter per esempio), con l’attuazione  di politiche di deregulation. Tutto ciò rende la competizione sempre più forte e consente alle imprese di allargare le catene produttive  verso altri paesi, a minor costo. Con il collasso dell’Unione Sovietica e, quindi, la sparizione dello spauracchio anche del comunismo, si compie l’atto finale comportando anche l’ingresso dei  paesi dell’area dell’est nell’arena competitiva. Questo comporta la sempre maggiore internazionalizzazione delle imprese, con conseguenti minori vincoli verso gli  Stati nazionali e le comunità locali. Da una parte questo comporta alcuni benefici per i consumatori ed investitori, con maggiori possibilità di scelta e riduzioni di costo (si pensi ad esempio ai mercati delle telecomunicazioni e a quello del trasporto aereo), questi vantaggi sono comunque più che bilanciati dalla perdite come cittadini in termini di sicurezza del lavoro e riduzione delle retribuzioni, in sintesi l’autore afferma:
Il capitalismo  è diventato più sensibile alle nostre richieste individuali in quanto consumatori, ma la democrazia è sempre meno sensibile alle nostre richieste collettive in quanto cittadini.

La trasformazione del capitalismo ha anche comportato   un crescente  peso delle aziende nelle decisioni politiche, rappresentato dall’autore dalla crescente opera e spesa per l’attività di lobbying. Inoltre, il processo di trasformazione del capitalismo, ha innescato una crescita della diseguaglianza distributiva, con la impennata delle retribuzioni dei manager e la riduzione dei salari degli altri e, quindi, anche una  maggiore concentrazione della ricchezza.  L’autore,  in parte, assolve le aziende in quanto  rispondono solo alla richieste di maggiore  competitività e di realizzare profitti e, quindi, in buona parte  è soprattutto colpa nostra e  del nostro atteggiamento “schizofrenico”,  che come consumatori e investitori spingiamo per risparmiare sui consumi o guadagnare di più con gli investimenti. Nel finale, Reich,  da alcune indicazioni, ma l’aspetto più rilevante per l’autore, è che dobbiamo aumentare la consapevolezza del nostro duplice ruolo di cittadini e consumatori e quindi che il cambiamento dipende da noi e dalla nostra volontà di contare di più come cittadini, infatti conclude:
possiamo farcela solo se ci assumiamo seriamente le nostre responsabilità in quanto cittadini, e salvaguardiamo la nostra democrazia
Nel complesso  il libro  è dunque molto interessante e ben scritto  e consente di comprendere meglio la evoluzione del capitalismo con i suoi vantaggi e i suoi limiti. Ritengo che evidenzi comunque poco l’aspetto della enorme crescita del capitalismo finanziario che, con le su aberrazioni, ci ha regalato la crisi in cui adesso ci ritroviamo. Inoltre, manca anche un elemento evidenziato da Stiglitz nel suo libro, La globalizzazione e i suoi oppositori, ovvero che mancano quelle istituzioni globali in grado, viste ormai le difficoltà degli stati nazionali, di rappresentare la volontà dei cittadini e limitare lo strapotere del "supercapitalismo".

giovedì 16 ottobre 2014

Le lezioni della storia comprese a metà

Se guardiamo alla situazione recente, ma diamo uno sguardo al passato, possiamo vedere come alcune lezioni della storia a volte vengano comprese ma, invertendosi le parti, a volte no
Partiamo da lontano, siamo nel 1919 conferenza di pace, i vincitori della prima guerra mondiale richiedono alla sconfitta Germania pesantissimi risarcimenti di guerra. Keynes, che partecipa alla conferenza, non è d’accordo e sbatte la porta, scriverà poi un libro: Le  conseguenze economiche della pace, dove prevede chiaramente che questi pesanti pagamenti metteranno in ginocchio la Germania e quindi di innescare dei pericolosi risentimenti e voglia di rivincita. Qualche anno più tardi, in seguito alla pesante situazione economica e sociale, sale al potere Hitler. Nel secondo dopoguerra gli alleati, compresi Grecia e Italia,  cambiano strategia e cancellano buona parte dei debiti di guerra e i restanti vengono diluiti in 30 anni e praticamente mai saldati. In compenso alla stessa Germania  dopo la riunificazione viene anche concesso di derogare ai limiti imposti dai trattati sullo sforamento del debito pubblico. Adesso a  parti invertite la Germania invece, dimentica di quello che gli è stato concesso, assume un atteggiamento molto severo e inflessibile con gli altri alleati europei. Le conseguenze sono un generale ristagno della economia. Conosco già l’obiezione dei soliti saputoni, ma adesso siamo in tempo di pace e i tedeschi sono stati solo più bravi.  Evidentemente in parte è vero, la Germania ha fatto delle mosse che le hanno consentito di diventare l’economia forte qual'è, ma come? Hanno attuato una politica mercantilistica, basata sull’export, principalmente verso  i suoi partner dell’euro, sfruttando il cambio fisso dell’euro e facendo una politica di contenimento salariale. Ora voi direte che i nostri politici sono dei mascalzoni perché hanno continuato a spendere  e  aggravare la spesa pubblica. Diciamo che sicuramente hanno delle colpe, e in particolare quella di non rispondere adeguatamente alla sfida della Germania, ma mi chiedo non siamo una Unione Europea? Non dovremmo coordinare le nostre azioni  per  rendere tutta la nostra  area più forte e competitiva verso gli USA o la Cina, o dobbiamo fare ognuno la politica del «frega il tuo vicino»? E qui sta il punto sulla costruzione europea che è completamente carente sia da un punto di vista economico e sia  da un punto di vista politico, invece di essere una politica del tipo win-win, ovvero collaboriamo per vincere insieme, sta diventando una politica loose-loose, perché, anche se è vero che la Germania sta meglio, ora che i suoi partner non possono più spendere e comincia a  rallentare vistosamente. La Germania ha perso due guerre e vuole vincere la terza guerra economica? Vogliamo che il sud Europa subisca un processo di completa deindustrializzazione e impoverimento? Se sono su una scialuppa di salvataggio, e qualcuno sta cercando di accaparrarsi tutti i viveri e l'acqua, che faccio continuo a rispettare delle regole asimmetriche che chiaramente mi svantaggiano? 

venerdì 3 ottobre 2014

Articolo 18 parole e fatti

Sull'articolo 18 mi sembra che si applichi il contrario di quello che dice il criterio di Pareto, che infatti afferma che si dovrebbe concentrare sul 20% di argomenti per risolvere l'80% dei problemi. 
Parlare di articolo 18 significa, quindi, spendere energie su un falso problema. L'articolo 18, come sapete, di fatto è già stato ampiamente ridotto dal governo Monti e dal Ministro Fornero. Come afferma uno studio del 2006 di Oliver Blanchard, del FMI quindi non proprio marxista, non esistono comunque  evidenze certe di correlazione tra aumenti di flessibilità del lavoro e aumenti della occupazione e infatti la disoccupazione in Italia dopo la riforma Fornero è aumentata. Inoltre  da i dati OCSE. si rileva che il grado di flessibilità del lavoro in Italia è ormai, dopo tutte le riforme attuate, non meno flessibile della media  paesi industrializzati. Quindi parlare di articolo 18 significa parlare del nulla, se poi andiamo a chiedere a 100 imprenditori in questo momento quali sono le priorità credo che quelli che metterebbero l'articolo 18 in prima fila sarebbero pochissimi, a riprova che la maggioranza degli imprenditori punta al sodoCiò non vuol dire che il Job Act non contenga anche cose utili, ad esempio il contratto a tutele progressive, c'è da capire, quando si sapranno i dettagli, come ad esempio questo contratto sarà incentivato rispetto alle attuali forme di precarietà che il governo Renzi ha addirittura aumentato. 
Insomma sul modo del lavoro c'è molto da fare, e come dice Blanchrad nel suo studio dobbiamo passare dalla difesa del posto di lavoro alla difesa del lavoratore. Infatti  non ci possiamo illudere che il mercato del lavoro sia quello di 50 anni fa, con la possibilità di avere il posto fisso a vita, questo, dato il ritmo di cambiamento tecnologico che modifica sempre più rapidamente le condizioni del mercato, non è più pensabile e quindi, ci vorrà più flessibilità. Tale flessibilità però non deve essere scaricata solo sul lavoratore, anche perchè, da che mondo e mondo, proprio il mercato ci dice che ciò che è più flessibile si paga di più. Allora perchè Renzi ha imboccato questa strada? Non credo che sia matto o stupido, probabilmente la motivazione è esclusivamente politica: attuare un ulteriore strappo con la vecchia guardia del PD e del sindacato e prendere ulteriori consensi al centro e a destra. Ma tornando ai temi veri, quelli economici, la strada è invece quella di ottenere una deroga sul limite del 3% del deficit, che ormai quasi tutti i paesi di fatto non rispettano. Questo ci può consentire un minimo di respiro in più ma, il problema di fondo è che, per uscire dalla crisi, ci vogliono politiche espansive della domanda aggregata che possono attuare principalmente i paesi che sino ad esso l'hanno risucchiata dagli altri (Germania), se vogliamo veramente costruire un progetto europeo. In parallelo l'Italia ha bisogno di uscire dalle secche dove l'ha portata una politica miope e di scarsa visione. In particolare ridefinire la spesa pubblica incentivando la ricerca e chi crea lavoro. Ribilanciare il welfare, meno spesa in pensioni ingiustificate, e più sussidi di disoccupazione per chi perde o non trova lavoro. Una burocrazia che favorisca l'impresa e non crei solo lacci e lacciuoli, compresa una vera riforma della giustizia civile come si deve. Rivedere la scuola, ma non con le solite riforme che cambiano tutto per non cambiare niente, bisogna ripensare alla formazione anche e sopratutto nell'ottica di favorire l'incontro con la domanda attuale, ma sopratutto prospettica, evitando spreco di risorse in direzioni poco utili (abbiamo bisogno di tutti questi avvocati?) e verso una formazione anche più tecnica (vedi esempio della Germania), va bene la cultura ma un po di sano realismo serve.

venerdì 26 settembre 2014

Discorso di Stiglitz alla camera

 Pubblico stralci della lezione di Joseph Stiglitz tenutasi alla Camera il 23 settembre che condivido in pieno.

Non ho bisogno spiegare quanto sia drammatica la situazione economica in Europa, e in Italia in particolare. L'Europa è in quella che può definirsi una «triple dip recession», con il reddito che è caduto non una, ma tre volte in pochi anni, una recessione veramente inusuale. Così l'Europa ha perso la metà di un decennio: in molti paesi il livello del Pil pro capite è inferiore a quello del 2008, prima della crisi; se si estrapola la serie del Pil europeo sulla base del tasso di crescita dei decenni passati, oggi il Pil sarebbe del 17% più alto: l'Europa sta perdendo 2000 miliardi di dollari l'anno rispetto al proprio potenziale di crescita.
Oggi abbiamo a disposizione una grande quantità di dati sull'impatto delle politiche di austerità in Europa. I paesi che hanno adottato le misure più dure, ad esempio chi ha introdotto i maggiori tagli al proprio bilancio pubblico, hanno avuto le performance peggiori.
Non solo in termini di Pil, ma anche in termini di deficit e debito pubblico. Era un esito previsto e prevedibile: se il Pil decresce anche le entrate fiscali si riducono e questo non può far altro che peggiorare la posizione debitoria degli stati.
Tutto ciò avviene non perché questi paesi non abbiano realizzato politiche di austerità, ma proprio perché le hanno seguite. In molti paesi europei siamo di fronte non a una recessione, ma a una depressione.
La Spagna, ad esempio, può essere descritta come un paese in depressione se si guardano gli impressionanti dati sulla disoccupazione giovanile di quel paese. La disoccupazione media è al 25% e non ci sono prospettive di miglioramento per il prossimo futuro (...).
Quali sono le cause? Devo dirlo con molta franchezza: l'errore dell'Europa è stato l'euro. Quando faccio questa affermazione voglio dire che l'euro è stato un progetto politico, un progetto voluto dalla politica. Robert Mundell, premio Nobel per l'economia, sosteneva fin dall'inizio che l'Europa non presentava le caratteristiche di un'«area valutaria ottimale», adatta all'introduzione di un'unica moneta per più paesi. Ma a livello politico si riteneva che la moneta unica avrebbe reso l'Europa più coesa, favorendo l'emergere delle caratteristiche proprie di un area valutaria ottimale. Questo non è successo; l'euro, al contrario, ha contribuito a dividere e frammentare l'Europa.

Gli errori concettuali

Vediamo gli errori concettuali alla base del progetto dell'euro (...). Quando si crea un'area monetaria si vanno ad eliminare due meccanismi di aggiustamento, i tassi di cambio e i tassi di interesse. Gli shock sono inevitabili e in assenza di meccanismi di aggiustamento si va incontro a lunghi periodi di disoccupazione. I 50 stati federati degli Usa hanno un bilancio unitario a livello federale e due terzi della spesa pubblica negli Stati Uniti sono a livello federale. Quando uno stato come la California ha un problema, può contare ad esempio sull'assicurazione pubblica contro la disoccupazione, che è finanziata da fondi federali. Se una banca in California è in crisi, viene attivato un fondo di emergenza anch'esso dotato di risorse federali. Un'altra differenza di fondo tra gli stati che compongo gli Usa e quelli dell'Unione Europea è che nessuno negli Stati Uniti si preoccuperebbe per lo spopolamento del Sud Dakota a seguito di una crisi occupazionale, anzi, l'emigrazione è vista come un meccanismo fisiologico. Ma in Europa un'emigrazione come quella che ha caratterizzato la componente più giovane e istruita della popolazione del sud Europa – dove la disoccupazione giovanile è a livelli elevatissimi ha effetti negativi di impoverimento di quei paesi, con tensioni sociali e frantumazione delle famiglie. Sono costi sociali che non sono calcolati dal Pil. Tutto ciò era stato in qualche modo previsto nel momento in cui si è deciso di introdurre l'euro (...).
Quali altri errori sono stati compiuti? Innanzi tutto l'idea che le cose si sarebbero risolte se i paesi avessero mantenuto un basso rapporto tra deficit o debito pubblico e Pil. È l'idea che sta dietro al Fiscal compact. Ma non c'è nulla nella teoria economica che offra un sostegno ai criteri di convergenza adottati in Europa. Anzi, la realtà ci mostra come quei criteri fossero sbagliati: Spagna e Irlanda avevano un bilancio pubblico in avanzo prima del 2009, non avevano sprecato risorse. Eppure hanno avuto delle crisi gravissime. Il debito ed il disavanzo di questi paesi si sono creati successivamente, per effetto della crisi, e non viceversa. Il fatto di aver introdotto un Fiscal compact che impone vincoli ferrei al disavanzo e al debito non risolverà i problemi, né aiuterà a prevenire la prossima crisi.
Un altro elemento che non è stato valutato appieno è che quando un paese si indebita in euro, piuttosto che in una moneta emessa dal paese che contrae il debito, si creano automaticamente le condizioni per una crisi del debito sovrano. Il rapporto debito/Pil negli Stati Uniti è analogo a quello europeo ma gli Usa non avranno mai una crisi del debito sovrano come quella che ha investito l'Europa. Perché? Perché l'America si indebita in dollari, e quei dollari verranno sempre rimborsati perché il governo degli Stati Uniti può stampare i propri dollari. La crisi che ha colpito i debiti sovrani di numerosi paesi europei negli ultimi anni è simile a quanto ho visto molte volte quando ero capo economista della Banca Mondiale: paesi come l'Argentina o l'Indonesia hanno vissuto profonde crisi causate proprio dal fatto che si erano indebitati in valute che non potevano controllare. Quando questo avviene c'è sempre il rischio di una crisi del debito, e in Europa le condizioni per questo tipo di crisi sono state create con l'introduzione dell'euro. L'unica soluzione possibile nell'attuale situazione europea è piuttosto semplice e si chiama Eurobond. Tuttavia, sembrano esserci ostacoli politici a questa soluzione che la rendono impraticabile, ma questa sembra l'unica via d'uscita logica.
Inoltre, con l'euro si è creato un sistema fondamentalmente instabile. L'obiettivo iniziale era quello di favorire la convergenza tra gli stati europei, attraverso la disciplina fiscale dei paesi membri. Il sistema che è stato creato in realtà produce divergenza. Il mercato unico, la libera circolazione dei capitali in Europa sembrava essere la strada verso una maggiore efficienza economica. Ma non ci si rese conto del fatto che i mercati non sono perfetti. Negli anni ottanta c'erano alcuni economisti convinti del perfetto funzionamento dei mercati, mentre oggi siamo consapevoli delle innumerevoli imperfezioni che li caratterizzano. Ci sono imperfezioni da lato della concorrenza, imperfezioni sul versante del rischio e dell'informazione. I mercati non sono quelli descritti dai modelli economici semplificati (...).

L'insistenza sulle riforme strutturali

Oggi si insiste molto sulle riforme strutturali che i singoli stati dovrebbero introdurre (...) Quando si sente la parola riforma si è portati a pensare a qualcosa dagli esisti sicuramente positivi, ma sotto quest'etichetta possono nascondersi misure dagli esiti profondamente negativi. Le riforme strutturali in realtà sono quasi tutte viste dal lato dell'offerta, con obiettivi come l'aumento dell'offerta o della produttività. Ma, è realmente questo il problema dell'Europa e dell'economia globale? No. I problemi oggi sono legati a una debolezza della domanda, non dell'offerta. Le riforme strutturali sbagliate aggraveranno, attraverso la riduzione dei salari o l'indebolimento degli ammortizzatori sociali, la debolezza della domanda aggregata, con ovvie conseguenze su disoccupazione e dinamica macroeconomica. E' necessario anche riflettere sul momento in cui si possono adottare tali riforme. Senza scendere nel merito delle riforme del mercato del lavoro nei diversi paesi europei, vorrei farvi notare che i paesi caratterizzati da un mercato del lavoro fortemente flessibile non hanno evitato le gravi conseguenze della crisi. Gli Stati uniti erano apparentemente il paese con il mercato del lavoro più flessibile, ma hanno avuto una disoccupazione al 10%. E anche oggi, quando viene propagandata la grande ripresa dell'economia statunitense, con una disoccupazione ridotta al 6%, bisogna pensare che c'è una fetta della popolazione americana sfiduciata al punto tale da aver smesso di cercare un'occupazione. Il tasso di disoccupazione reale degli Stati Uniti è attorno al 10% (...).
Che cosa dovrebbe dunque fare l'Europa? Sembra veramente difficile che si possa risolvere la crisi intervenendo con riforme nei singoli paesi senza riformare la struttura dell'eurozona nel suo complesso. Su alcuni di questi interventi strutturali sembrerebbe esserci un discreto consenso.
In primo luogo, una vera Unione bancaria, fatta di vigilanza e di assicurazione comune sui depositi, faciliterebbe la risoluzione congiunta delle crisi. Si tratta di misure urgenti, e l'urgenza è data dai numerosi fallimenti di imprese e banche, che possono danneggiare seriamente le prospettive di crescita future.
In secondo luogo, è necessario un meccanismo federale di bilancio in Europa che potrebbe prendere, ad esempio, la forma degli Eurobond, una soluzione pratica e facile che consentirebbe all'Europa di utilizzare il debito in funzione anticiclica, come hanno fatto gli Stati Uniti in questi anni. Se l'Europa potesse indebitarsi a tassi di interesse negativi come stanno facendo gli Stati Uniti potrebbe stimolare molti investimenti utili, rafforzare l'economia e creare occupazione. E i soldi che oggi vengono spesi per il servizio del debito dei singoli paesi potrebbero essere utilizzati per politiche di stimolo alla crescita.
In terzo luogo, l'austerità va abbandonata e va adottata una strategia articolata di crescita. I paesi europei sono molto diversi tra loro, ad esempio in termini di produttività. Sono dunque necessarie politiche industriali che favoriscano la crescita della produttività nei paesi più deboli, ma tali politiche sono precluse dai vincoli di bilancio imposti agli stati membri. Un ostacolo ulteriore è rappresentato dalla politica monetaria. Negli Stati Uniti la Federal Reserve ha un mandato articolato su quattro obiettivi: occupazione, inflazione, crescita e stabilità finanziaria. Oggi il principale obiettivo della Federal Reserve è l'occupazione, non l'inflazione. Al contrario la Banca Centrale Europea ha come unico mandato l'inflazione, si concentra unicamente sull'inflazione. Questo viene da un'idea che era molto di moda, benché non comprovata da alcuna teoria economica, quando lo Statuto della BCE è stato redatto. L'idea consisteva nel considerare la bassa inflazione come l'elemento di traino fondamentale e quasi esclusivo per la crescita economica. Nemmeno il Fondo Monetario Internazionale condivide più questa convinzione, ma l'Europa non sembra in grado di abbandonarla. Questa politica monetaria sbagliata, può produrre e sta producendo conseguenze economiche gravi. Se gli Stati Uniti mantengono bassi i loro tassi di interesse per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, mentre in Europa i tassi continuano a mantenersi più elevati, in una logica anti-inflazionistica, questo favorisce l'afflusso di capitali e l'apprezzamento dell'euro. E questo, ovviamente, rende ancora più difficile esportare le merci europee con un evidente impatto negativo sulla crescita. Quando gli Stati uniti hanno cominciato ad adottare un politica monetaria fortemente espansiva ricorrendo al «Quantitative easing», l'esito positivo di questa politica è stato facilitato dal fatto che l'Europa non ha fatto lo stesso.
Patologie Usa e Ue
Se l'Europa avesse abbassato i propri tassi di interesse nello stesso modo in cui l'ha fatto la Federal Reserve, la ripresa negli Stati Uniti sarebbe arrivata molto più lentamente. Il paradosso, dunque, è che gli Stati Uniti dovrebbero ringraziare l'Europa per aver aiutato la ripresa dell'economia americana tramite le sue politiche monetarie sbagliate. Ci sono altri aspetti da considerare. Viviamo oggi in un economia fortemente legata all'innovazione tecnologica e alla conoscenza. Ma per favorire l'innovazione sono necessari investimenti costanti e di grandi dimensioni in comparti come l'istruzione e le infrastrutture. Si tende a pensare agli Stati Uniti come a un'economia innovativa. Questo è vero, ma è necessario ricordare negli Stati Uniti le innovazioni più importanti, come Internet ad esempio, sono state sostenute e finanziate attivamente dal governo. C'è stata una politica attiva dell'innovazione. Quando ero a capo del Gruppo dei consiglieri economici della Casa bianca, verificammo che i benefici degli investimenti pubblici in innovazione erano superiori a quelli prodotti dagli investimenti privati. Si tratta di esempi di politiche attive per la crescita che avrebbero effetti molto positivi e che vanno in una direzione opposta a quella del rigore che sta strangolando l'Europa.

Infine, dobbiamo renderci conto che sia l'economia europea che quella statunitense erano affette da un patologia ancor prima dell'esplosione della crisi. Fino al 2008 l'economia europea e quella americana erano sostenute da una bolla speculativa che interessava principalmente il settore immobiliare. In assenza di quella bolla si sarebbero visti tassi di disoccupazione molto più elevati. Ovviamente non vogliamo tornare a una crescita fondata su bolle speculative (...). È necessario comprendere, dunque, quali sono i problemi di fondo che colpivano le nostre economie già prima della crisi e che, oltre a non essere stati affrontati sino ad oggi, sono peggiorati durante la recessione. Il primo problema sono le disuguaglianze crescenti nelle nostre società. La crisi ha contribuito ad aumentarle ovunque, negli Stati uniti i benefici della ripresa sono andati quasi completamente all'1% più ricco della popolazione. Negli Usa il valore del reddito mediano (quello che vede metà degli americani con redditi più alti e l'altra metà con redditi inferiori) al netto dell'inflazione è oggi più basso di 25 anni fa. Questo fa sì che la famiglia americana media non abbia soldi da spendere e, di conseguenza, la domanda aggregata rimane debole. Il secondo elemento è legato alla necessità di una trasformazione strutturale verso l'economia della conoscenza. Una trasformazione che i mercati non sono in grado di gestire. Il ruolo di guida e di stimolo di tali trasformazioni dev'essere esercitato dei governi i quali, a causa della crisi attuale, non hanno in alcun modo svolto questo compito (...)
La politica industriale sarà senz'altro uno degli strumenti fondamentali per uscire da questa situazione. È necessario un Fondo europeo per la disoccupazione e un Fondo europeo per le piccole imprese, investimenti che vadano molto oltre quello che fa oggi la Banca europea degli investimenti.
Oltre alle cose che andrebbero fatte vi sono, però, anche cose che non vanno fatte. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, ho già detto che maggiore flessibilità non aiuterà a risolvere i problemi attuali, anzi li aggraverà aumentando le disuguaglianze e deprimendo ulteriormente la domanda. La situazione italiana, ad esempio, vede già presente un elevato grado di flessibilità; aumentarla ancora indebolirebbe l'economia senza portare vantaggi. Bisogna essere molo cauti.
Cosa non bisogna fare
Un'altra cosa che l'Europa non deve fare è sottoscrivere il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip). Un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi molto negativo per l'Europa. Gli Stati Uniti, in realtà, non vogliono un accordo di libero scambio, vogliono un accordo di gestione del commercio che favorisca alcuni specifici interessi economici. Il Dipartimento del Commercio sta negoziando in assoluta segretezza senza informare nemmeno i membri del Congresso americano. La posta in gioco non sono le tariffe sulle importazioni tra Europa e Stati uniti, che sono già molto basse. La vera posta in gioco sono le norme per la sicurezza alimentare, per la tutela dell'ambiente e dei consumatori in genere. Ciò che si vuole ottenere con questo accordo non è un miglioramento del sistema di regole e di scambi positivo per i cittadini americani ed europei, ma si vuole garantire campo libero a imprese protagoniste di attività economiche nocive per l'ambiente e per la salute umana. La Philip Morris ha fatto causa contro l'Uruguay perché l'Uruguay vuol difendere i propri cittadini dalle sigarette tossiche. La Philip Morris nel tentativo di contrastare le misure adottate in Uruguay per tutelare i minori o i malati dai rischi del fumo si è appellata proprio ai quei principi di libero scambio che si vorrebbero introdurre con il Ttip. Sottoscrivendo un accordo simile l'Europa perderebbe la possibilità di proteggere i propri cittadini. Questo tipo di accordi, inoltre aggravano le disuguaglianze e, in una situazione come quella europea, rischierebbero di approfondire la recessione.
Si può ancora aspettare?
L'Europa può ancora permettersi di aspettare? Se non si cambia la struttura dell'eurozona, se l'Europa continua sulla strada attuale, si candida a perdere un quarto di secolo, dovete esserne consapevoli. Quando eravamo nel mezzo della Grande Depressione degli anni trenta, non si sapeva quanto sarebbe durata, ed è finita solo con la seconda guerra mondiale e la massiccia spesa pubblica che l'ha accompagnata. Non dobbiamo augurarci che l'attuale crisi venga risolta allo stesso modo, ma oggi l'Europa ha le mani legate.
Infine, la questione della democrazia. C'è un deficit di democrazia creato dall'introduzione dell'euro. Gli elettori votano a favore di un cambiamento delle politiche, poi arriva un nuovo governo che dice «ho le mani legate, devo seguire le stesse politiche europee». Questo compromette la fiducia nella democrazia. Oltre alle argomentazioni economiche che rendono necessario un cambiamento c'è questa disaffezione nei confronti della politica, che porta al rafforzamento delle forze estremiste. Non è soltanto l'economia che è in gioco, la posta in gioco è la natura delle società europe.

giovedì 18 settembre 2014

Divisi si perde

L’idea che l’unione faccia la forza ovviamente fa parte della saggezza popolare. D’altro canto  gli antichi Romani, con il loro «divide et impera», ci hanno insegnato come dividere il campo avversario sia un ottima strategia per vincere. Senza ricorrere alle lotte di classe di Marx, lo stesso Adam Smith sosteneva che «I padroni, essendo pochi,  possono coalizzarsi più facilmente" (dalla Ricchezza delle nazioni). 
Mi domando allora perché, visto che queste cose sono abbastanza evidenti, la maggioranza dei cittadini  continui a subire una situazione provocata da una serie di scelte scellerate da parte di certe élite. 
Sia chiaro, come ho scritto in altri post, la democrazia è una bella parola ma che nasconde molte insidie. Non sono affatto un populista convinto, cioè che il popolo abbia sempre ragione, credo comunque che, come sosteneva Popper, abbia il diritto e il dovere di scegliersi le élite che lo governano e che, d’altra parte, queste  devono essere soggette al controllo delle istituzioni (buone istituzioni comunque). 
Questa premessa per dire che, in realtà, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale ha degli interessi comuni, ovvero  quello di aver diritto a un certo benessere e a un set di diritti fondamentali e, inoltre,  che l’ambiente in cui viviamo e, spero possano vivere i nostri figli, sia preservato e mantenuto. 
Ora io sono profondamente convinto che, dato l’attuale livello tecnologico e di conoscenze, ci siano le condizioni per vivere in maniera  più dignitosa tutti e che si possa proseguire in un miglioramento generale  delle condizioni di vita. Certo ci sono delle grandi differenze  ancora e non si può risolvere tutto in poco tempo ma, mentre vedo favorevolmente con i limiti che dopo dirò, il miglioramento delle condizioni delle popolazioni che fino a qualche decennio fa erano in condizioni di profonda povertà, noto, d'altra parte,  che nei paesi sviluppati si sta rischiando di ridurre le conquiste sociali, ottenute con grandi sforzi, per livellarci verso il basso. 
Come ho detto ci sono dei limiti allo sviluppo, è sbagliato il modello occidentale sinora adottato con un consumo e spreco insensato di risorse, questo modello non può e non deve essere esattamente replicato dai paesi sottosviluppati, dobbiamo insieme, mentre loro crescono, adottare un modello più rispettoso della limitatezza delle risorse e comunque più razionale. Noi dovremmo accettare di ridurre il nostro consumismo insensato, sono certo vivremo meglio e loro, i paesi in via di sviluppo, devono avere la possibilità di raggiungere un livello di vita più che dignitoso senza ripercorre gli stessi nostri errori, pensate solo a cosa era Pechino, città sottosviluppata  ma pulita, e cosa è oggi , in crescita, ma profondamente inquinata. Quello che mi dispiace è che le forze, diciamo "non conservatrici" cioè di coloro che non sono contrari al cambiamento, siano profondamente divise e litighino su questioni secondarie perdendo di vista l'obiettivo comune. Perché su alcune questioni non ci dovrebbe essere una certa convergenza? Non credo che gli interessi di chi riceve il proprio reddito da lavoro  siano così lontani, siano essi imprenditori, dirigenti di azienda, professionisti, impiegati o operai, invece vedo divisioni insensate. Scendo su questioni più concrete, qualcuno giustamente potrebbe sostenere che volo troppo alto, a livello politico ad esempio, tra  Grillini e Pd e anche qualcun'altro, che hanno basi elettorali non diversissime, non si può raggiungere un qualche accordo per delle riforme politiche, economiche e istituzionali che siano più condivise e rappresentino meglio la maggioranza dei cittadini? E come, altro esempio, tra  gli economisti, non smaccatamente liberisti, invece di litigare per dimostrare di essere uno più bravo dell'altro e attaccarsi in continuazione, non sarebbe possibile raggiungere un qualche accordo e fare pressione sulla politica, in particolare europea, per cambiare finalmente queste politiche scellerate che stanno svantaggiando la gran parte dei cittadini? E gli stessi cittadini, invece di combattere tra di loro, europei del nord contro quelli del sud e viceversa, autoctoni contro immigrati, lavoratori privati contro pubblici ecc., non farebbero meglio a combattere il vero nemico, ovvero chi sta cercando di ridurre le nostre conquiste sociali a beneficio dei soliti pochi
Certo, lo  so anch'io che queste considerazioni nascondono forse delle illusioni o sono un tantino naive, ma è che non sopporto l'idea che ci infiliamo in situazioni dolorose evitabili. Faccio solo un esempio, se alla fine della prima guerra mondiale, nella conferenza di pace, si fosse dato ascolto a Keynes, che era contrario ai pesanti pagamenti imposti alla Germania sconfitta, probabilmente (lo so che la storia non si fa con i se e i ma) ci sarebbero state meno opportunità per una salita al potere del partito nazista e tutte le terribili conseguenze successive.
In conclusione posso dare solo  un consiglio ai pochi cittadini che mi leggono: INFORMATEVI! Con questo intendo dire non solo di leggere i giornali, che spesso sono male informati e di parte, ma libri e anche di andare in Rete e leggere. Le fonti sono tante ma, col tempo, riuscirete a selezionarle e forse le cose, col tempo,  potrebbero sembrarvi più complicate della visione che avete ma, sicuramente, sarete un po più consapevoli che  vi stanno imbrogliando.

lunedì 8 settembre 2014

Diagnosi, malattie e terapie

Non sono un esperto di medicina ma possiamo dire, in generale, che  un medico per prima cosa analizza  i sintomi e i dati del paziente. Questo gli dovrebbe consentire una diagnosi della malattia, cosa ovviamente non facile. Una volta individuata la malattia si procede con la cura. Anche in questo caso la scelta  è difficile perché non tutte  le cure sono adatte a tutti i pazienti e, spesso, esistono cure alternative per la stessa malattia  che vanno testate e il cui effetto va verificato sul paziente. A volte le cure non esistono o sono poco sperimentate e si procede, quindi, in base alla sensibilità del medico e anche alle  decisioni del paziente. Riportando questo anche alla economia per prima cosa si dovrebbero vedere i dati e i sintomi. Ora, dopo che si era avviata la crisi economica, per effetto della crisi delle banche americane e  al blocco del circuito bancario a causa  delle quantità massicce di derivati ed altri titoli di pessima qualità nei bilanci di moltissime banche europee, i sintomi e i dati indicavano nel tempo: una caduta dei consumi e degli investimenti, un aumento della disoccupazione, il crollo del credito. Insomma una situazione tipica di inversione del ciclo e l’incamminarsi verso quella che Keynes chiamava «trappola della liquidità». 
Negli Stati Uniti, la Fed dopo aver attuato una serie di misure, anche discutibili, di salvataggio delle  istituzioni bancarie, ha proseguito con una politica monetaria espansiva per rilanciare l’economia e lo stesso dicasi  ha fatto il governo americano, anzi  alcuni economisti, vedi Krugman post  Uscire da questa crisi adesso!, hanno anche criticato che tali misure erano anche troppo timide. 
In Europa invece che si è fatto e detto? Si è parlato di austerità, anche espansiva una specie di ossimoro, e si sono attuate tutta una serie  di misure completamente opposte a quello che i sintomi indicavano, fino al capolavoro di masochismo rappresentato dal «fiscal compact». Qualcuno potrebbe dire che non erano chiari i sintomi o c’erano divergenze sulle cure, ma il fatto che sulle cure una quantità enorme di economisti sosteneva il contrario qualcosa voleva pur dire. Tra l’altro assistiamo ad una retromarcia dei  "liberisti", vedasi gli ultimi articoli di Tabellini e Alesina che, visto il peggiorare dei sintomi, hanno quasi completamente cambiato opinione e chiedono politiche espansive. Tra l’altro in economia, come in altri campi sarebbe bene differenziare e, quindi, adottare un mix di politiche mi sembrerebbe saggio. Per cui le manovre monetarie di Draghi, per altro  ancora timide per motivi politici (opposizione della Germania), da sole non basteranno ad alimentare la domanda ed è necessario un piano di investimenti pubblici a livello europeo e probabilmente dell’altro ancora. A questo punto delle due l’una, o si capisce che dopo gli evitabilissimi errori è venuto il momento di cambiare, e se ne convincono tutti, oppure se dobbiamo rimanere cosi sul Titanic che affonda, tanto vale cercarci la scialuppa  e abbandonare la nave dell’euro.

lunedì 1 settembre 2014

Luca Ricolfi - L'enigma della crescita

Il libro che recensiamo oggi è L'enigma della crescita, Mondadori, 2014.
Il tema su cui si cimenta questa volta il sociologo Luca Ricolfi, che insegna Analisi dei dati  alla Università di Torino ed è  autore di molti libri di divulgazione su temi economici e sociali, è la crescita. 
In una prima parte, l’autore, elenca ed analizza  gli studi economici sul tema, per poi proseguire con gli studi da parte degli statistici/demografi sulla evoluzione delle popolazioni, sia animali sia altri organismi, ad es. le piante. Dall’analisi comparata di questi studi e dai dati da lui elaborati, l’autore cerca di individuare sia gli elementi che caratterizzano lo sviluppo economico e sia la forma che questo sviluppo prende. Il suo studio è comunque dedicato ai paesi più sviluppati e al periodo che va dal 1995 al 2007, essendo l’ultimo periodo caratterizzato dalla profonda crisi che tutti viviamo ancora oggi. 
Dall’analisi dei dati,  per Ricolfi, i fattori che determinano in un paese, in positivo o in negativo, la crescita, risultano essere: il capitale umano, ovvero il livello qualitativo/formativo delle risorse umane), il sistema istituzionale (principalmente economico), la tassazione sulle imprese e il lavoro, gli investimenti esteri, e il livello del reddito. Mentre i primi, cosiddetti fondamentali, contribuiscono positivamente alla crescita, con pesi diversi e in funzione ovviamente del loro valore, l’ultimo, il reddito o benessere, influisce in maniera considerevole in modo negativo, cioè tanto più è alto tanto meno un paese può avere tassi di crescita elevati. 
In definitiva Ricolfi conferma le conclusioni del modello neoclassico di Solow, e cioè che i paesi tendono con il tempo e con l’aumento del reddito pro-capite a diminuire la crescita. Tale andamento può essere più o meno veloce a seconda dei fondamentali  e, inoltre, sempre in funzione di questi ultimi varia il reddito finale, ovvero quello al di sopra del quale non dovrebbe esserci più crescita. Quindi un paese può, migliorando i suoi fondamentali, rallentare la corsa verso la diminuzione  della crescita, ma i dati sembrano confermare che, al di là della crisi recente,  tutti i paesi i sviluppati si erano comunque incamminati verso una fase di declino dello sviluppo.
Alcune considerazioni: il libro è comunque interessante e anche se, pur essendo divulgativo, richiede una dose di attenzione per districarsi nei vari passaggi, anche matematici, che necessitano comunque un certo impegno.   Ovviamente non sono in grado di fare critiche alla sua analisi dal punto di vista quantitativo, anche se, come tutti i modelli è comunque una semplificazione di una realtà economica che, per forza di cose, è molto più complessa.  Su molte indicazioni concordo e anche, credo, buona parte degli economisti; ritengo che,  comunque, sottovaluti, in qualche passaggio, il ruolo della crisi ed inoltre, quello che altri studi mettono in evidenza, cioè l’importanza del fattore tecnologico come strumento di sviluppo.

venerdì 29 agosto 2014

Sulle spalle dei nani

Il titolo del post prende spunto, in negativo, dalla frase, “sulle spalle dei giganti”, attribuita a Newton ma la cui paternità in realtà andrebbe a Bernardo di Chartes, con il significato che certi progressi nella conoscenza e, per estensione in generale della società, sono dovuti anche, e soprattutto, al lavoro dei nostri predecessori. In questi caso mi riferisco alla classe politica europea che nella costruzione della unità europea ci ha portato in questo vicolo cieco. Infatti la costruzione di quella che è oggi la Unione Europea e in particolare dell’ area euro, parte da lontano e da grandissimi personaggi, tra cui non si possono non citare Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e il loro Manifesto di Ventotene, e i successivi statisti che hanno contribuito al nascere ed evoluzione della Unione. 
Ora l’idea di fare una moneta unica, prima di aver consolidato e previsto le necessarie istituzioni (ad esempio una vera Banca Centrale con tutti i poteri), poteva sembrare una idea più facile ad attuare che una vera unione politica con la creazione di un vero Stato federale, anche se in contrasto con il parere di moltissimi economisti di varie estrazioni (vedi ad es. Teoria delle aree valutarie ottimali). Per quanto mi riguarda non sono un sostenitore delle teorie del complotto, credo, e qualche dichiarazione in tal senso sembra confermarlo, che i rischi fossero noti ma si pensava, probabilmente, che il processo di integrazione politica potesse andare avanti, vedi la proposta di Costituzione, il suo stop, a causa dei referendum, ha fermato il processo e ci siamo trovati con un unione monetaria senza le istituzioni e una moneta senza Stato, che per lo stesso significato moderno di moneta è una specie di contraddizione. 
La crisi economica quindi, ha travolto l’Unione Europea in una fase in cui non avevamo adeguate istituzioni e, inoltre, era presente una situazione di profondi squilibri economici tra i paesi dell’unione monetaria, come d’altra parte previsto e prevedibile dalla teoria economica.
Il peggio è che, di fronte ad una tale situazione di crisi, le risposte della politica non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, vedi ad esempio come è stata affrontato il caso Grecia e come siano state le politiche economiche assunte. 
Siamo di fronte, quindi, ha una preoccupante carenza di visione da parte dei politici europei e anche da coloro che ne sono i loro consiglieri ed ispiratori per la parte economica (non la cito, perché è già presente come sottotitolo del blog, la frase di Keynes), che nel caso migliore possiamo definire dilettantismo o se invece ci sia, come alcuni sostengono, anche della malafede.
La situazione è piuttosto intricata e complicata, economicamente tutte le economie dell’area euro sono in sofferenza, certo c’è chi sta meglio di noi, ma le prospettive, visto il perdurare della crisi, non sono buone per nessuno, sono comunque economie interconnesse.
A questo punto gli scenari possibili sono svariati, ed è impossibile dire che piega prenderà la storia, anche in questo caso dipenderà dai personaggi sulla scena. Ad oggi chi ha fatto di più per salvare l’euro è stato Draghi. Molti lo criticano, io non mi sento di sparargli contro, è in una posizione difficile, tenuto sotto controllo dalla Germania e dalla Bundesbank, credo che stia cercando di fare, soprattutto con le dichiarazioni, quello che ritiene necessario. Da una parte ha smussato le tensioni e gli spread con le sue dichiarazioni in difesa dell’euro. Adesso sta cercando di ridurre il valore dell’euro con altre dichiarazioni su possibili manovre monetarie espansive. Queste manovre potrebbero allentare la crisi, ma certo non risolverla in tempi brevi, quindi, uno scenario potrebbe essere che, grazie alla ripresa mondiale, la crisi europea potrebbe farsi meno critica e allora potrebbe esserci anche il tempo, e la speranza, per fare qualche aggiustamento istituzionale. 
Un ulteriore scenario è che invece la situazione si deteriori ulteriormente e, quindi, credo che a quel punto non sarà più interesse di nessuno, neanche della Germania, di mantenere la unione monetaria. Infine l’ultimo scenario, un tantino ottimista, è che buona parte dei politici europei rinsavisca, anche perché le pressioni incominciano a venire da più parti, e che si mettano d’accordo per cambiare le attuali politiche di austerità con un piano di rilancio degli investimenti pubblici e comunque con manovre espansive a livello europeo.

venerdì 15 agosto 2014

Più PIL per tutti

Dopo la interruzione delle meritate vacanze, passate tra le rive delle Dordogna ad ammirare i paesi medioevali, per proseguire tra i vigneti e i monasteri dell’Aude e sulle rive del canale du Midi e, infine, tra gli incantevoli luoghi della Provenza, riprendiamo a parlare di attualità, in particolare del PIL (Prodotto Interno Lordo), visto che i dati delle ultime stime lo danno in riduzione in Italia e persino nella locomotiva d’Europa: la Germania. 
Per cominciare dobbiamo ricordare che cos’è il PIL, non è così difficile da comprendere, è fatto di alcuni ingredienti: i consumi (privati), gli investimenti (privati), la spesa pubblica, e poi dalla differenza (saldo) tra esportazioni e importazioni. Anche se non amate la matematica è più semplice e sintetico scriverlo come:

PIL= C+I+G+X-M,

dove C consumi, I gli investimenti, G la spesa pubblica, X le esportazioni e M le importazioni.
Questa bella equazione nasconde all’interno un parametro, che tutti gli economisti che si rispettano sanno essere importante, e si chiama ”aspettative” o se preferite fiducia; è chiaro che se le aspettative sono buone aumentano anche i consumi dei privati e gli investimenti delle imprese. Quindi è abbastanza pacifico che vi sono varie modi per aumentare il PIL, ma le cose sono un poco più complicate di quello che potrebbe sembrare.
Intanto, un primo passo, potrebbe essere aumentare i consumi, vedi ad esempio i famosi 80 euro, tra l’altro come gli economisti dicono c’è un effetto, come dire a valanga (gli economisti seri dicono moltiplicatore), cioè se io spendo 100 euro in più, questi sono reddito per qualcun altro che in parte li spenderà e cosi via. Intanto non è cosi facile appunto aumentare i consumi quando la situazione è come quella attuale con le famose aspettative come dire un pò “nere” vista la crisi, inoltre, non va dimenticato che, se aumento i consumi, potrei indurre anche a comprare di più i prodotti esteri, perché meno cari o di qualità migliore, e quindi aumentare la M e quindi vanificando l’effetto di aumentare C.
Per gli investimenti vale lo stesso discorso, in tempi di vacche magre è difficile che le imprese si arrischino a fare investimenti se le prospettive sono appunto negative, si possono dare degli incentivi ma questo va a toccare il punto G, ovvero la spesa pubblica.
E qui veniamo alla spesa pubblica, sarebbe facile aumentare il PIL aumentandola, spesso si è fatto in passato, ma questo significa o aumentare le tasse che riduce i consumi o spendere più di quanto si incassa e quindi aumentare il debito pubblico che comunque costa interessi da pagare e che non si può aumentare all’infinito per non finire a gambe per aria (default). Quindi o uno ha poco debito cumulato, oppure, come nel nostro caso Italia, non ci sono molti margini. Bè direte e se spendessimo meglio i soldi ed eliminassimo gli sprechi? Bene sono d’accordo, ma intanto se riduciamo comunque G di certo non aumenta il PIL, se spendiamo i soldi meglio siamo tutti d’accordo, ma ci vuole del tempo e molto lavoro che scontenterà parecchi, insomma non è un gioco da ragazzi e da tempi brevi. A questo punto direte aumentiamo X, ovvero le esportazioni, ok, ma per farlo o i nostri prodotti costano di meno e quindi paghiamo meno gli operai, si ma poi riduciamo anche C, oppure riduciamo il valore della moneta, ah peccato siamo nell’euro! Allora dovremmo essere molto bravi a fare prodotti di qualità, non facilmente replicabili, e su questo si aprirebbe un bel discorso sulle capacità imprenditoriali e sulle capacità in generale di sfruttare l’enorme patrimonio artistico e culturale italiano, su cui al momento sorvolo, ma diciamocelo pure, negli ultimi anni si è fatto molto poco e abbiamo perso molto tempo e perduto anche posizioni a livello internazionale. 
Quindi, in definitiva se il PIL, in Italia, si riduce o aumenta poco tutto sommato se ci ragionate un attimo non è così strano, e per la Germania? Qui la spiegazione non è cosi complicata, la Germania ha puntato molto sulla X (esportazioni), piuttosto che su C o I , andate a vedere i dati è proprio così; ora, se anche gli altri paesi europei arrancano e quindi comprano meno, dato che rappresentano una bella fetta dell’export tedesco, anche il Pil della Germania prima o poi ne deve risentire a meno di non trovare altri mercati di sbocco. Quindi, in definitiva, se pensate che in un economia a moneta unica come l’area euro, i problemi si possano risolvere solo con le politiche nazionali siete un tantino fuori strada, a meno, appunto, di uscire dall’euro con altre problematiche di difficile valutazione. 
Quindi, la realtà è che, se gli europei fossero un tantino più razionali, capirebbero che da questa situazione non si esce se non si attuano delle politiche europee di vasto respiro, ad esempio un vasto piano di investimenti pubblici strutturali dedicati a cose utili, dalle tecnologie innovative, alle energie alternative, a infrastrutture importanti di vario genere (telecomunicazoni, rete stradali, ferrovie ecc), insomma non credo che non ci siano modi intelligenti di spendere soldi. Ciò non significa che non si debbano fare delle riforme per omogeneizzare i mercati del lavoro, ridurre gli sprechi, o ridurre il peso della burocrazia, dico solo che, da una situazione di stagnazione, si esce solo con una spinta coraggiosa da parte dello Stato; anche perché le politiche monetarie di Draghi hanno funzionato poco sinora e, per quanto le ultime sue mosse cerchino di fare arrivare più soldi anche alla economia reale, a mio modestissimo parere questo può aiutare, ma abbiamo bisogno di un ben più potente motore di avviamento per far ripartire la “macchina” Europa. 
Quindi per questo, ripeto, la partita vera si gioca in Europa, siamo in tempo? Ci sono le condizioni politiche per accordarsi? In tempo ci siamo, ma comunque ci vorrà, appunto, del tempo, la crisi è profonda e finora si sono commessi molti errori. Sulle condizioni politiche, per quanto io cerchi di essere ottimista, non riesco a credere che un continente con così tanta storia e intelligenza possa continuare a suicidarsi in questo modo, purtroppo il secolo scorso ci ha insegnato che lo abbiamo già fatto.
Quindi un consiglio a Renzi: cerchi di giocare la sua partita in Europa rischiando anche di più, anche perché, a continuare così non abbiamo nulla da guadagnare, rischiamo solo la desertificazione industriale e l’impoverimento, quindi a questo punto tanto vale tentare il tutto per tutto o uscire da questo stupidissimo euro.

sabato 19 luglio 2014

Quel pasticciaccio brutto di via del Nazareno

Ho pubblicato l’appello di Zagrebelsky qualche giorno fa  e credo che nei contenuti non ci sia niente da aggiungere. Mi permetto  solo qualche considerazione. 
La nostra Costituzione nasce nel dopoguerra, dal lavoro di grandissimi personaggi e con la partecipazione di molte anime politiche. Una delle preoccupazioni dei padri costituenti era evitare la possibile ricaduta verso regimi dittatoriali, tenendo presente che il regime fascista sale al potere, con tutte gli errori e le forzature che volete, ma comunque all’interno di un regime parlamentare che via via viene smantellato. Pertanto nella costruzione dell’impalcatura costituzionale ci sono una serie di condizioni che tendono a limitare il rischio di derive autoritarie nello spirito della divisione dei poteri ovvero del principio «check and balance». La creazione del bicameralismo perfetto si inserisce in questa logica, facendo dell’Italia uno dei pochi paesi ad avere tale architettura. Il problema è stato, comunque, poi acuito da un sistema elettorale assurdo, «il procellum», con le sue logiche elettorali distorte. Quindi ben venga il superamento del bicameralismo, ma  non si vede però la esigenza di fare una riforma istituzionale  così pasticciata, pensando  a come è nata la nostra Costituzione e al livello di qualità e  partecipazione nella sua costruzione e avendo presente come, un buon assetto istituzionale, sia uno degli aspetti più importanti e delicati per il buon funzionamento di una democrazia.
Personalmente non mi piacciono le definizioni come «deriva autoritaria» o «regime» un troppo abusate, in questo caso credo che si tratti di soprattutto  di pressapochismo. Capisco perfettamente la esigenza di fare presto, troppo tempo abbiamo discusso di  leggi elettorali e riforme istituzionali perdendo tempo e ritrovandoci al punto di prima, e, inoltre, quando sono state fatte alcune riforme, da una sola parte, le soluzioni sono state pessime o rifiutate dal referendum. Credo che ci siano le condizioni e le possibilità di fare delle riforme velocemente ma con più ponderazione, riflessione e anche partecipazione. Sulla democrazia come ho scritto nel primo post bisogna andarci cauti. Concludo con due citazioni la prima di Schumpeter sulla volontà popolare, dedicata ai populisti per cui  quello che conta è la volontà popolare :
Per quasi tutte le decisioni della vita quotidiana racchiuse nel breve orizzonte che il cittadino abbraccia con piena coscienza della realtà non si può seriamente contestare (…) l’intenzione di agire nel modo più razionale possibile, ma appena ci allontaniamo dalle preoccupazioni private della famiglia e della professione ed entriamo nel campo degli affari nazionali ed internazionali (…), il dominio dei fatti e il metodo di deduzione cessano ben presto di rispondere ai requisiti della dottrina classica di  agire nel modo più razionale possibile”- Da Capitalismo, socialismo e democrazia ;
La seconda  di Popper:
Abbiamo bisogno non tanto di uomini validi, quanto di buone istituzioni. Anche l’uomo migliore può essere corrotto dal potere, le istituzioni che permettono ai governati di esercitare un certo controllo efficace sui governanti, costringeranno quelli cattivi a far ciò che i governati giudicano nel loro interesse (…). Per questo è tanto importante elaborare istituzioni che impediscano anche ai cattivi governanti di provocare danni eccessivi.” Da Congetture e Confutazioni