domenica 30 dicembre 2018

David Van Reybrouck Contro le elezioni-Perchè votare non è più democratico

La democrazia nei paesi occidentali è in crisi, una crisi di legittimità e di efficienza. La prima significa il venir meno del consenso, la seconda la difficoltà della capacità di azione, in sintesi crisi che l'autore definisce "stanchezza democratica".
Quali sono le diagnosi di tale crisi. La prima, quella populista, è che sia colpa dei politici: parassiti e approfittatori. La seconda diagnosi, quella tecnocratica, indica che il problema è la complessità del processo decisionale democratico servono, quindi, tecnocrati e specialisti che non devono preoccuparsi delle elezioni e adottare anche misure impopolari. Un altra diagnosi critica la democrazia rappresentativa, la soluzione sarebbe la democrazia diretta. 
I tre rimedi o soluzioni appaiono all'autore tutti pericolosi, il populismo è pericoloso per la minoranza, la tecnocrazia è pericolosa per le maggioranza, l'anti-parlamentarismo è pericoloso per la libertà.  L'autore propone una diversa diagnosi, il problema potrebbe essere la democrazia fondata sulle elezioni, sotto l'effetto della isteria collettiva dei media commerciali, dei social media e dei partiti politici la febbre elettorale è diventata permanente con gravi conseguenze sul funzionamento della democrazia.  L'errore sarebbe di aver ridotto la democrazia a una democrazia rappresentativa e la democrazia rappresentativa a delle elezioni.
In realtà, la riduzione della democrazia alle sole elezioni è una deriva recente, infatti nella democrazia greca si faceva ricorso molto estesamente al meccanismo del sorteggio, ripreso poi anche in altre realtà successive ( Venezia, Firenze, ecc.)
Il sistema elettivo deriva dalle rivoluzioni americane e francese, ma leggendo attentamente gli scritti dei padri fondatori della democrazia si percepisce che il sistema era si democratico per il diritto di voto, tra l'altro inizialmente limitato, ma sopratutto aristocratico per il suo reclutamento, tutti potevano votare ma i candidati erano sostanzialmente una élite. In questo modo la uguaglianza di chance politiche è stata limitata con una separazione piuttosto netta tra governanti e governati. In pratica le rivoluzioni hanno sostituito una aristocrazia non eletta con una scelta con votazione.
Se questo è il vero problema della democrazia bisogna rivedere il sistema democratico, alcuni tentativi sono stati fatti (Islanda, Irlanda, Canada) con assemblee di cittadini chiamati a fare delle proposte legislative, le assemblee hanno prodotto dei risultati positivi che in genere però sono stati in qualche modo boicottati dai partiti politici, quindi le esperienze sono solo parzialmente positive anche se siamo solo ai primi passi. Un altra applicazione potrebbe essere un sistema bi-rappresentativo con una camera eletta e una a sorteggio. 
Siamo solo all'inizio ma questa è la strada per l'autore che porta a diminuire la diffidenza tra governati e governati. Nel complesso un bel libro, ben documentato e controcorrente, che fa emergere i limiti e le difficoltà insite nel sistema attuale con una serie di proposte di cambiamento.

domenica 9 dicembre 2018

Tony Judt - Guasto è il mondo -Laterza


Tony Judt è un professore e intellettuale americano molto noto e con diverse pubblicazioni all’attivo.
Il libro parte con la constatazione che nel mondo di oggi c’è qualcosa di profondamente sbagliato avendo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse personale. Ma non è stato sempre così, nel dopoguerra sino agli anni 70 c’era invece un ampio consenso nella azione dello Stato e nelle politiche “socialdemocratiche”, cioè che le iniquità del capitalismo potessero essere stemperate dalla Stato con la garanzia di un benessere presente e futuro. Lo stato sociale e la tassazione progressiva non erano un tabù. La situazione si è però ribaltata a partire dagli anni ‘70 (la rivincita di Hayek vs Keynes), con un declino del senso di uno scopo condiviso e il primato dell’interesse individuale, cioè una inversione di rotta intellettuale. In parte è anche dovuto alle generazioni della protesta della fine degli anni 60, che hanno dato per scontate le conquiste acquisite con una battaglia di rivendicazioni individuali nei confronti dello Stato e della società. La caduta del comunismo ha poi sfilacciato tutta la massa di dottrine che aveva in qualche modo tenuto insieme la sinistra; senza più un riferimento culturale la sinistra ha finito per incorporare le dottrine liberiste che sono divenute dominanti.
Il problema è che se anche ci siamo liberati giustamente della tesi che lo Stato sia la soluzione migliore a qualunque problema ora dobbiamo liberarci della idea opposta cioè che lo Stato sia l’opzione peggiore. L’autore conclude, quindi, che bisogna in qualche modo recuperare una narrazione morale, con idee nuove in cui lo Stato rappresenti una istituzione intermedia primaria in grado di mediare tra cittadini insicuri e multinazionali e organismi internazionali non controllabili dai cittadini. Rimangono infatti troppi gli ambiti dove per perseguire i nostri interessi collettivi non basta fare quello che pensiamo sia meglio a livello individuale. Per fare ciò non dobbiamo per forza ripartire da zero ma il passato ancora ha qualcosa da insegnarci per costruire il futuro.
Un libro interessante per la capacità di analisi anche se in parte non del tutto nova, l’autore però non propone soluzioni concrete ma si limita a dare un messaggio di speranza.

mercoledì 21 novembre 2018

Carlo Calenda - Orizzonti Selvaggi- Feltrinelli

Carlo Calenda è ormai un personaggio noto, ex Ministro del Governo Gentiloni, appare, infatti, molto spesso in televisione ed è anche molto attivo sui social, questo è il suo primo libro.
Nella prima parte del libro affronta alcuni temi generali, in particolare: la globalizzazione, l'immigrazione, la rivoluzione tecnologica. Questi grandi tematiche sono state trattate in maniera sbagliata e superficiale dai progressisti, avendo questi passivamente accettato dei dogmi che sono propri della cultura liberista piuttosto che liberale. Infatti la globalizzazione, anche se ha portato dei vantaggi nei paesi in via di sviluppo, ha determinato la perdita di molti posti di lavoro e maggiore precarietà nei paesi occidentali. La rivoluzione tecnologica, anche se inevitabile, non è foriera di un futuro magnifico per tutti ma potrebbe ridurre ulteriormente le opportunità di lavoro per le fasce più deboli. Infine, la immigrazione, pur non del tutto evitabile, non è stata gestita finendo per diventare una arma a favore del populismo. C'è quindi (finalmente!) la consapevolezza e la ammissione di errori di valutazione e comunicazione da parte dei rappresentanti della ala progressista o liberal-democratica, che non hanno capito l'insorgere di paure e scontento in quella larga parte della popolazione che non è stata avvantaggiata dal fenomeno della globalizzazione. Il problema è quindi della incapacità culturale delle classi dirigenti di capire e gestire la complessità della trasformazione e le conseguenti paure dei cittadini, in buona parte giustificate, piuttosto che della ignoranza o incomprensione dei cittadini stessi:
Le classi dirigenti liberal-democratiche sono state bocciate non perché le persone sono "ignoranti"ma perché i risultati oggettivi delle politiche di questi ultimi trent'anni sono stati deludenti.
Questo è avvenuto in quasi tutti i paesi occidentali, con aumento delle derive populiste e autoritarie mettendo a rischio le democrazie liberali.
Una delle soluzioni per l'autore è il rafforzamento dello Stato che ha subito un indebolimento a favore del mercato e dell'economia globalizzata in grado di approfittare delle catene globali per aumentare i profitti e diminuire le tasse. Inoltre, propone un maggiore investimento nella cultura e nella formazione continua ("istruzione  di cittadinanza"), per garantire migliori opportunità di lavoro in rapporto alla evoluzione tecnologica e diminuire l'analfabetismo funzionale. In particolare per l'Italia espone varie  proposte tra cui: recupero della evasione, redistribuzione del reddito, miglioramento dei processi della P.A, miglioramenti istituzionali, aumento della partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese ecc.; in definitiva uno Stato più forte in grado di gestire la complessità delle trasformazioni e ridurre le diseguaglianze.
In ambito europeo auspica un accordo e maggiore integrazione tra le principali nazioni europee (Germania, Francia, Italia e Spagna) per superare l'impasse dell'attuale Unione Europea troppo allargata.
Nel complesso è un libro interessante e ben scritto, che finalmente ammette gli errori della sinistra e del PD (superando il "rancorismo" Renziano) e fa un analisi delle criticità delle trasformazioni in atto nell'occidente, con alcune proposte con cui in larga parte concordo,  inoltre trovo corretto il rispetto che mostra, ad esempio per i corpi intermedi (sindacati), cosa su cui ha sbagliato Renzi.
Questo libro conferma la mia simpatia per l'autore che, oltre ad essere preparato, mi appare intellettualmente onesto.
Va anche detto che le sua analisi delle criticità le trovate negli autori che ho recensito ( Rodrik ad esempio) e quindi non sono una novità, il tema della necessità di gestire le trasformazioni è poi il tema del libro di Polanyi.
Non mi trovo d'accordo su alcune cose, ad esempio quando parla di eurozona affermando che l'Italia sarebbe una delle nazioni più avvantaggiate. Infatti, in primo luogo andrebbe osservato che l'Europa fondata sull'euro è un errore da un punto di vista economico e sociale come ammettono molti, cosa molto diversa dal progetto iniziale dei fondatori. Che siamo stati avvantaggiati in parte dallo scudo della eurozona, ad esempio per i tassi di interesse, è vero, però bisogna ammettere che questa architettura con i suoi limiti ha anche creato parecchie difficoltà al nostro paese con un cambio sopravalutato. Inoltre, non c'è nessun accenno agli errori commessi dalla "Troika": nella gestione della recessione, alle politiche suicide del Fiscal Compact, alle regole senza senso del 3%, agli errori commessi con la Grecia. Infine, non c'è alcun ammissione che anche l'Europa con la sua costruzione soffre di un deficit democratico evidente. Sono d'accordo, come ho sempre sostenuto, che una soluzione possibile è un accordo a 4 (e non solo Franco-Tedesco) se si vuole salvare l'Europa, ma su questo punto credo che il percorso sarà molto difficile e forse impossibile, per come si sono messe le cose. Dire che la costruzione europea è insoddisfacente e che l'euro non funziona non significa automaticamente essere no-euro o che l'uscita sia una passeggiata, ma non evidenziare i limiti di questo sistema con le sue pesanti ripercussioni che ha avuto ed ha per il nostro paese mi sembra una mancanza significativa e grave se si vuole dare una rappresentazione complessiva della storia recente.

domenica 28 ottobre 2018

Carlo Cottrelli- Il macigno- Perché il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a liberarsene- Feltrinelli

Carlo Cottarelli non ha bisogno di molte presentazioni, economista del FMI è divenuto ormai molto conosciuto in Italia per le sue numerose apparizioni pubbliche.
In questo libro, nella prima parte, descrive la genesi del nostro elevatissimo debito, in particolare è solo a partire dagli anni '80 che cresce e supera il 100% (rapporto debito/PIL) a causa del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia (aumento dei tassi di interesse) e a politiche in deficit per numerosi anni. Nei decenni successivi i deficit si riducono grazie ad avanzi primari e grazie anche alla diminuzione dei tassi, il debito/PIL si mantiene costante per poi riprendere a crescere dal 2008 a causa della crisi economica che riduce drasticamente il PIL. 
Le soluzioni per ridurlo sono alcune. La prima, la più semplice sulla carta, è ripudiare o ristrutturare il debito, ma questo non sarebbe indolore visto che il 70% del debito è in mani italiane. La seconda soluzione sarebbe la condivisione del debito in Europa, soluzione sicuramente auspicabile ma molto difficilmente percorribile. Altra soluzione è la vendita del patrimonio pubblico anche questa strada non è facilmente attuabile e non è detto che dia i risultati sperati. La soluzione, preferita dell'autore, è il contenimento della spesa, contenimento attuabile evitando eccessi che bloccherebbero la crescita, cercando di mantenere il bilancio in sostanziale pareggio. Infine, l’ultima ricetta è quella di spingere la crescita del PIL per ridurre il rapporto, le ricette per la crescita non sono comunque certe e comunque richiedono tempi piuttosto lunghi, quindi Cottarelli, alla fine, sostiene che l’unica ricetta sostenibile è sicura è quella di una politica di controllo delle spese e riduzione degli sprechi. 
Cottarelli è sicuramente un bravo economista ma appartiene alla corrente “mainstream”,  la sua esperienza al FMI (che ha preso parecchie "toppe" ultima quella della Grecia), dovrebbe mettere in guardia e quindi non va  preso come un oracolo; le sue considerazioni sono comunque piuttosto equilibrate e ragionevoli anche se fino ad oggi le ricette del contenimento della spesa (avanzi primari da moltissimi anni) non hanno prodotto risultati e quindi bisognerebbe avere il coraggio di proporre qualcosa di meglio. Il libro è scritto comunque  in maniera comprensibile anche per il grande pubblico e merita una lettura.

giovedì 30 agosto 2018

Paul De Grauwe - I limiti del mercato


Il libro è scritto da Paul De Grauwe, economista che insegna alla London School of Economics e riesce, in poche pagine, a descrivere i principali problemi dell’economia.
Il mercato, per l’autore, ha dei limiti: esterni ed interni. 
I limiti esterni sono dovuti alla possibilità che alcuni costi (esternalità), come ad esempio l’inquinamento, tendono ad essere scaricati sulla comunità. I limiti interni invece sono dovuti al fatto che il mercato tende a generare, inevitabilmente, grandi diseguaglianze che non solo sono ingiuste ma generano instabilità e anche bolle speculative che finiscono per generare delle profonde depressioni. Detto questo, l’autore evidenzia che la storia ha mostrato che solo il mercato è riuscito a garantire il costante miglioramento delle condizioni economiche della società malgrado i suoi limiti. D’altra parte, solo lo Stato può riuscire a limitare queste disfunzioni in quanto il mercato da solo ha dimostrato di non essere in grado di autoregolarsi, quindi la questione se sia meglio lo Stato o il mercato è mal posta, avendo ognuno dei compiti distinti, infatti Stato e mercato sono  complementari. 
Inoltre, solo lo Stato può gestire e creare i beni pubblici (ad esempio la sicurezza) che comunque sono indispensabili in una società. Il problema è che lo Stato nel perseguire l’interesse generale deve andar in conflitto con l’interesse individuale, ma gli interessi privati, se sono molto forti, tendono a condizionare la politica (cattura) e quindi a imporre la volontà di alcune minoranze sugli interessi della maggioranza. In aggiunta con la globalizzazione le capacità degli Stati di perseguire gli interessi della maggioranza si sono indebolite a favore delle grandi corporation sovranazionali. Infine, i problemi di inquinamento travalicano i confini nazionali e si rendono necessarie autorità sovranazionali per far rispettare le regole e diminuire i rischi del cambiamento climatico. La storia ci ha mostrato che i rapporti di forza tra Stato e mercato tendono a oscillare, con una ripresa del potere del mercato negli ultimi decenni dopo un rafforzamento dello Stato dagli anni '30 fino alla fine degli anni '70.
Quali siano i problemi è quindi evidente, le  soluzioni sono possibili solo grazie ad un società inclusiva e democratica  che possa correggere il sistema economico nel senso dell’equità e della giustizia sociale senza compromettere l’efficacia del libero mercato. Su questo l’autore riamane di fondo pessimista, anche se afferma che rimane necessario continuare a impegnarsi affinché le riforme del sistema vengano attuate per evitare la probabile catastrofe.
In sintesi un libro molto ben scritto e leggero che riesce comunque, con grande semplicità, a spiegare la complessità dei principali problemi della società capitalistica, temi che abbiamo affrontato spesso in questo blog.

martedì 26 giugno 2018

Certa sinistra sempre un passo indietro


Le ultime elezioni amministrative segnano un ulteriore sconfitta di quel che resta del PD a vantaggio soprattutto della destra e della Lega. Non c’è nulla di sorprendente, il PD in questo momento è acefalo e senza idee, ma tornando indietro  nel tempo bisogna ammettere che certa sinistra è stata sempre un passo indietro.
Iniziamo la storia dal dopoguerra, alle prime elezioni il Fronte Popolare (PCI e socialisti uniti) perde, d’altra parte perché i cittadini dovrebbero votare in maggioranza per un partito che in parte si rifà alle idee del comunismo che è dall’altra parte della cortina di ferro e che rappresenta un idea di società basata sulle idee marxiste che, con tutto il rispetto per la grandezza di Marx, sono comunque vecchie di cento anni rispetto alla evoluzione della  teoria economica e sociale.
Per fortuna i socialisti entrano nel  primo governo di centro sinistra agli inizi degli anni ‘60 apportando alcuni elementi positivi al governo della DC (ad esempio nazionalizzazione energia elettrica), purtroppo alle elezioni continuano a guadagnare voti i comunisti che dopo il 68 (invasione della Cecoslovacchia) iniziano a distaccarsi, sempre troppo poco, dal PCUS sovietico e a non cogliere appieno lo spirito dei tempi (movimenti del ‘68).
L’Italia si involve negli anni ‘70, combattuta tra una DC ancora al potere ma molto corrotta, un PCI impossibilitato, per motivi internazionali (USA), a poter ambire al potere e un partito socialista minoritario con il terrorismo che avanza.
Poi arriva Craxi, che riesce a prendere il governo, ma per fare che? Insinuarsi nelle sfere del potere e occupare le istituzioni e le grandi aziende statali, con una politica in deficit senza controllo che non viene indirizzata per migliorare la situazione complessiva e competitiva del paese ma solo ad aumentare  fittiziamente la domanda interna e il debito.
Nel’89 crolla il muro di Berlino e la sinistra comunista deve cambiare nome; “mani pulite” fa pulizia di buona parte della vecchia dirigenza politica, peccato che alle prime elezioni ancora una volta non si capisca che il mondo è cambiato e gli italiani pure, e la “gioiosa macchina da guerra” del PDS si schianta ancora una volta contro il muro del berlusconismo, molto più avanti nella comunicazione e nella capacità di sedurre gli italiani.
A favorire il ritorno della sinistra aiuta la magistratura, arriva Prodi, uomo più di centro che di sinistra, che ci regala alla fine degli anni '90 l’ingresso nell’euro, che sapevano tutti sarebbe stata una camicia di forza per la nostra economia, in base alla convenienza  della diminuzione degli interessi del nostro debito pubblico "monstre" (eredità del CAF) e sperando, in maniera naïve, che poi la Europa si sarebbe avviata verso riforme istituzionali, che invece non arriveranno mai. Grazie sempre a certa sinistra (D’Alema e Bertinotti) cade anche Prodi, da notare che D’Alema il comunista è diventato un liberista che regala ai suoi amici una delle aziende più floride d’Italia (Telecom).  
Riprende il governo l’eterno Berlusconi che si trova costretto ad abdicare nel 2011 su pressioni dei mercati. Arriva il governo tecnico (Monti) e tutti hanno paura e lasciano fare anche un poco di macelleria sociale; Napolitano (ex PCI) fa il monarca e si va alle elezioni tardi con Bersani, brava persona, incapace però di fare una campagna elettorale decente e con il “grillismo” in grande ascesa visto lo scontento generale.
Decide sempre Napolitano, prima Letta (non di sinistra) poi l’enfant prodige Renzi (molto poco a sinistra) che, grande novità, si presenta come il Blair italiano, quando quest’ultimo e le sue idee  erano già datate avendo governato più di 10 anni prima in una situazione completamente diversa. La crisi, infatti, ha colpito le classi medio basse e la globalizzazione tende a comprimere il lavoro, il genio di Rignano che fa? Colpisce il sindacato e vara il Job-Act che elimina definitivamente l’art.18 e racconta storie. Gli italiani all’inizio abboccano, ma Renzi è ormai al delirio di onnipotenza e si gioca tutto sul referendum che perde.
Morale della favola, l’Italia non è un paese di sinistra anche se una parte di elettori rimane fedele. Se si vuol governare bene bisogna capire la complessità della situazione nazionale e internazionale, bisogna essere anche abili a comunicare ma ci vogliono idee, bisognerebbe attingere per questo dalla letteratura economica, sociale e politica più recente, cercando di essere abbastanza realistici ma non masochisti (vedi anche i ricchi piangano).
La sinistra massimalista italiana è rimasta sempre indietro di almeno un secolo, quella più moderna  di almeno dieci anni e più, comunque sempre indietro rispetto alla evoluzione della società e delle idee, se c’è qualcuno si faccia avanti.

martedì 19 giugno 2018

Le priorità di Salvini e quelle dell’Italia

Quali sono le priorità di Salvini, mi pare evidente: immigrazione, flat-tax e tasse, abolizione Fornero, ma queste sono le priorità dell’Italia o i giornali e i 5 stelle si stanno facendo dettare false priorità? 

Immigrazione, si tratta di un problema sicuramente importante e di difficile soluzione, ma considerando che le iniziative del precedente Ministro degli Interni ( Minniti), quantunque le si giudichino, hanno effettivamente ridotto gli sbarchi (dati Ministero Interni 2017 vs 2016) forse in questo momento non è il più urgente dei problemi anche se non va sottovalutato e se alcune prese di posizione possono essere utili ma non basta a risolvere il problema.

Tasse, considerando che in Italia le tasse (IRPEF) le pagano dipendenti e pensionati (circa 92% del gettito -dati 2015) gli autonomi pagano il restante pur essendo il 15% dei contribuenti, il che fa sospettare di evasione mentre Salvini propone la pace fiscale (altro condono); la introduzione della flat-tax come dimostrato (vedi qui) non produce grandi recuperi fiscali e invece sicuramente un buco nelle entrate non ne vedo la priorità, semmai ci vorrebbe un fisco più semplice, equo ed equilibrato con maggiori sanzioni per gli evasori ma di tutto ciò nel programma ci sono solo cenni. 

Pensioni, l’Italia paga per le pensioni la quota % del PIL più alta di tutta la UE, questo per varie ragioni soprattutto generosità passate; la Fornero ha alzato notevolmente, e forse troppo ripidamente, l’età pensionabile, ma ci pone tra quelli in UE con l’età teorica più alta. Quindi qualsiasi tentativo di mettere mano a riforme pensionistiche è molto delicato per gli impatti sul bilancio, anche qui piuttosto che parlare di abolizione si potrebbero modificare leggermente i meccanismi cercando soprattutto di favorire il ricambio generazionale nel pubblico e nel privato. 
E qui mi aggancio alle vere priorità, la prima è senza dubbio il lavoro, l’occupazione è aumentata di molto poco con Renzi e l’aumento è tutto sbilanciato sui contratti a tempo determinato nonostante gli sforzi, il che dimostra che le scelte fatte tanto giuste non sono state, inoltre la disoccupazione giovanile è ancora altissima. Bisogna rendere effettivamente più appetibile il lavoro a tempo indeterminato (con il contratto a tutele progressive non ci sono più scuse sull’art.18) rispetto ai contratti a termine. Visto che non manca la offerta di lavoro ( e anche in parte la domanda non trova corrispondente offerta)  bisogna prima di tutto migliorarla come mix qualitativo, aumento dei laureati soprattutto nelle scienze dure, aumento formazione tecnica come in Germania, e maggiore collegamento lavoro-università. Sul lato offerta ci vogliono maggiori incentivi ad assumere, senza regali, ad esempio una tassazione che premi le imprese che hanno un rapporto fatturato/dipendente più basso (da calibrare in base al settore ma bisogna diminuire gli abusi della new economy tanto fatturato, anche nascosto, e pochi dipendenti). 
Altra vera priorità è il miglioramento della macchina burocratica e della giustizia amministrativa, qui le soluzioni sono più complicate e richiedono coinvolgimento di esperti, sindacati, dei giudici e altro, per trovare le soluzioni più adeguate, come al solito basta evitare di perdere tempo alla ricerca di soluzioni ottimali e prendere a riferimento soluzioni adottate altrove e funzionanti, ci vuole molto lavoro e comporta poca visibilità, forse per questo nessun politico si è mai impegnato. 
Come al solito l’agenda che viene imposta non è quella veramente importante, e il giornalismo fa da cassa di risonanza a scelte sbagliate.


mercoledì 13 giugno 2018

Y.N. Harari - Da animali a déi. Breve storia dell’umanità-Bompiani


Il libro dello storico israeliano Harari è un libro di storia, ma non di nomi e fatti bensì della umanità e, in particolare, dell’Homo Sapiens l’unica specie umana rimasta e che domina il mondo, anche  perché è l’unico animale a credere in cose che esistono puramente nella propria immaginazione, come dei, stati, denaro e diritti umani.
La storia umana presenta tre rivoluzioni
La prima è la cosiddetta rivoluzione cognitiva cioè la comparsa di nuovi modi di pensare e comunicare. La capacità di creare una realtà immaginaria (miti comuni) traendola dalle parole ha consentito che grandi numeri di estranei cooperassero tra loro, trasformando le strutture sociali.
La seconda rivoluzione è quella agricola, ma per l’autore peggiorò le condizioni individuali rispetto alla vita dei raccoglitori, c’era più cibo (surplus) ma con meno varietà con la importante conseguenza della creazione di società sempre più complesse e unificate, sino agli imperi, basate su gerarchie immaginarie.
Infine, viene la rivoluzione scientifica che fu la presa di coscienza dell’ignoranza e la nascita di un complesso militare-industriale-scientifico che diede origine al sistema capitalistico e alla  Rivoluzione Industriale. 
Gli ultimi cinque secoli sono caratterizzati dell’interazione di scienza, impero e capitale, alleanza che ha permesso alla Europa di essere il centro del mondo, imponendo su tutto il globo il suo stile di vita. Siamo gli eredi di questo connubio tra capitalismo e metodo scientifico, ancora oggi in vigore. Fu la rivoluzione sociale di maggior portata che il genere umano abbia mai vissuto: il crollo della famiglia e della comunità locale e la loro sostituzione con lo Stato e il mercato, con la nascita dell’individuo.
Nel finale pone una sguardo al  futuro, ci attende una rivoluzione biologica? Grazie alle conoscenze  scientifiche biologico/informatiche il rischio è che alla evoluzione naturale  si sostituisca il disegno intelligente dell’uomo. La direzione per Harari è  inesorabile, ma sappiamo dove vogliamo andare? Cosa c’è di più pericoloso di una massa di dei insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?
Un libro molto bello, interessante e a volte spiazzante e dissacrante, in cui c’è molto di più di quanto io possa sintetizzare che vi consiglio vivamente di comparare e leggere.

martedì 12 giugno 2018

Dani Rodrik - Rescuing Economics from Neoliberalism

Salvare l'economia dal neoliberalismo questo è il titolo di un articolo di Dani Rodrik su Boston Rewiev, di cui di seguito la mia sintesi.
E' difficile definire, con esattezza, cosa sia il neo-liberlismo in quanto ha assunto in passato varie forme e definizioni.
A partire dagli anni '90 il termine si è identificato con la derogolamentazione finanziaria e con la globalizzazione economica.
Questa vaghezza nella identificazione del termine spesso porta fuori strada i critici. Nel gettare del disprezzo verso di esso si richia di gettare via delle idee che sono invece utili.
Il problema non risiede nel mercato, nell'imprenditore o negli incentivi, il vero problema è che l'economia mainstream si trasforma in ideologia, e dobbiamo rigettare la ideologia quando si nasconde dietro il velo della scienza economica.
L'errore fatale del neoliberismo è che i principi economici del primo ordine si associno solo ad un unico set di politiche.
Ad esempio i diritti di proprietà sono positivi quando proteggono gli innovatori dai free-rideres, ma sono negativi quando li proteggono dalla competizione.
Un esempio di situazione dove sono emerse forme miste di proprietà è la Cina, le imprese dei villaggi e delle città (TVE) erano di proprietà collettiva ma controllate dal governo locale. La Cina ha sprimentato molte innovazioni nel campo delle istituzioni.
Molte economie avanzate presentano diversità anche se le politiche economiche sono omogenee, di fatto livelli di benessere elevati possono essere raggiunti con modelli diversi di capitalismo, e appare importante in molti casi addattare le politiche al contesto locale.
Gli economisti presuppongono che i loro modelli si vadano a raffinare progressivamente ma le cose non sono così in economia. Gli economisti studiano una realtà sociale mutevole, la cosa più importante è invece migliorare la capacità di comprendere la diversità delle relazioni causali. Il neoliberalismo con la sua insistenza su più meracato e meno Stato è una perversione dell'economia mainstream. 
Gli economisti che si fanno trascinare dall'entusiasmo per il libero mercato non fanno del bene alla disciplina economica. In economia raramente i vecchi modelli vengono sostituiti dai nuovi, per capire come funzionano i mercati bisogna adottare lenti diverse in tempi diversi.
Gli economsiti sono bravi nel costruire mappe, ma molto meno bravi nel scegliere la mappa più adatta al contesto in esame.
L'economia come diceva Keynes è "la scienza di pensare in termini di modelli unita all'arte di scegliere i modelli rilevanti".
Anche la globalizzazione viene difesa in maniera acritica, dimenticandosi che praticamente tutte le nazioni hanno violato le norme neoliberali nell'aderire al commercio internazionale; in alcuni casi (Messico) Stati che hanno intrapreso riforme troppo liberistiche non hanno avuto gli effetti sperati. La globalizzazione è divenuta un fine che tende a voler rimuovere anche le norme in materia di salute e sicurezza, politche ambientali, regolazione degli investimenti.
Così come l'economia deve essere salvata dal neoliberismo la globalizzazione deve essere salvata dalla iper-globalizzazione.
Ci vorrebe più umiltà da parte degli economisti e dei  tecnocrati in merito alle politiche più appropriate da adottare e una maggiore volontà nello sperimentare.
I neoliberisti sbagliano nell'affermare che esiste un unica ricetta per miglorare la performance economica. 
L'errore fatale del neoliberalismo è di non essere in grado di disporre della giusta economia, deve essere infatti respinto come cattiva economia.



giovedì 31 maggio 2018

Il paradosso del comma 22


Nel famoso libro Comma 22 di Joseph Heller viene esposto il famoso paradosso:
«Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo.»
Se lo vogliamo trasporre nell’attuale Eurozona diventa:
«Chi è pazzo può chiedere di uscire dall’euro, ma chi chiede di uscire dall’euro non è pazzo.»
Infatti uscire dall’eurozona in realtà sarebbe una decisione razionale visto che così come è stata creata è una costruzione sbagliata e disfunzionale, ma uscire dall’euro viste tutte le implicazioni e le interconnessioni economiche è una scelta comunque molto pericolosa.
La cosa più logica, come ho detto più volte, sarebbe riformare l’eurozona, ma razionalmente come si sono messe le cose non è molto realistico pensare che sia realizzabile. Ci siamo spinti troppo avanti, abbiamo perso tempo, e le posizioni dei vari paesi sono diverse e difficilmente conciliabili,  d’altra parte se si costruisce una casa (eurozona) partendo dal tetto e non dalle fondamenta è molto difficile che resti in piedi.
Come mostrato dal famoso piano B, redatto su Scenari Economici, l’uscita dall’euro prevede tutta una serie di operazioni complesse e non facili da realizzare. Comunque, dato che l’economia è una scienza complessa e complessi sono i sistemi economico-sociali con le loro interdipendenze, è difficile prevedere con precisione  lo scenario finale. Casi di default degli Stati nazionali nella storia sono stati molti (vedi libro di Reinhart e Rogoff  Questa volta è diverso) con casistiche differenti. Altra possibilità, che per me è l’unica, è quella di uscita concordata, tanto comunque se usciamo dovremmo concordare molte cose, ovviamente con questo non voglio dire che sia facile. Cosa dovremmo fare dunque. Per prima cosa dovremmo avere un governo forte (non facile vista la situazione), con  personalità con grande esperienza e conoscenza in campo economico. A questo punto, anche se qualcuno dice che non si possono battere i pugni su un tavolo che non c’è, dovremmo dire la nostra laddove si discute di riforme e proposte cercando alleanze (visto che i paesi coinvolti sono molti). Nel frattempo mettere in sicurezza la nostra economia con una serie di provvedimenti che rafforzino la nostra solidità e competitività, alcune cose si possono fare con molto sudore e non troppi soldi  (efficientamento burocrazia, miglioramento della giustizia, università, scuola, ricerca, riordino degli incentivi alle imprese, riqualificazione della spesa pubblica, aumento degli investimenti infrastrutturali). Cosa succederà è difficile dirlo, credo che la discussione  sarà lunga e dolorosa ma dobbiamo essere preparati a combattere ed ad uscire, non ci sono pasti gratis, dobbiamo solo affrontare le cose in maniera razionale e mettendo in campo le forze migliori per affrontare la situazione. Se l’Europa decidesse di riformarsi sarebbe un bene per tutti, se saremo costretti a uscire dall’euro dovremmo farlo ben sapendo che quello che seguirà sarà un momento molto difficile e oneroso, purtroppo, una volta fatta la scelta di entrare nell’euro, qualsiasi soluzione non sarà indolore, l’unica cosa da non fare è vivacchiare così nella speranza che qualcosa cambi o illudersi che basti dire che vogliamo uscire dall’euro e questo automaticamente si trasformi nella soluzione dei nostri problemi. Good night and good luck.

lunedì 28 maggio 2018

Non capisco, la saga degli orrori

Come non parlare della crisi istituzionale italiana. Dunque il presunto governo 5 Stelle-Lega non nascerà e qualcuno vuole l'impeachment di Mattarella, come dire siamo a buon punto. Per prima cosa vorrei dire che, pur avendo anche una certa simpatia per 5 Stelle (il che non significa che li voterei) e pur capendo alcune posizioni di Salvini  sull'euro, il loro governo partiva male, con un premier poco indipendente e soprattutto un programma pericoloso e destabilizzante. Mattarella aveva la facoltà (e anche le ragioni)  per negare la sua approvazione a Savona, rientra tra le sue prerogative, e una coalizione seria, che capisce come si sta al mondo in politica, avrebbe accettato la controproposta o fatto un'altra proposta se voleva veramente governare. E' dunque chiaro che, sopratutto, Salvini non voleva governare sul serio, Di Maio è sonoramente bocciato perchè non doveva imporre diktat e gridare all'impeachment, che furbescamente Salvini ha evitato di fare. Mattarella però, se pensa di proporre Cottarelli, fa un grandissimo errore perchè così facendo finisce per agevolare la teoria del complotto massonico-finanziario-germanico ecc., come gettare benzina sul fuoco, sembra una cosa talmente ovvia che non capisco, ma forse sotto c'è una logica a cui non arrivo.
Dunque alla fine non promuovo nessuno, anche se Salvini da un punto di vista strettamente  personale (e poco da quello del paese) è sicuramente il più bravo.
Ora la situazione si fa difficile, fare anche un governo transitorio non sarà una passeggiata, andremo presto alle urne il cui esito non è scontato anche se, a naso, il centro-destra con Salvini rafforzato e Berlusconi ricandidabile ha moltissme possibilità di vincere. Il che sarebbe per Berlusconi un ennesima vittoria che lo lascerebbe comunque al centro della scena politica, grazie alla stupidità e inconsistenza degli avversari capaci di resuscitare anche un cadavere. Non credo che questo centro-destra rappresenti la possibilità di rinnovare profondamente il paese, ai posteri l'ardua sentenza. L'unico che aveva in mano la possibilità di farlo è Renzi (ciò non significa che approvi il suo disegno politico) ma la sua brama di potere smisurata lo ha portato a fare una serie di errori politici madornali, non credo che sia finito ma neanche è facile riprendere la scalata al potere.
Siamo circondati da macerie (istituzionali)  e cadaveri (politici) purtoppo la colpa principale è nostra, cioè degli italiani che si illudono, ma non esiste in natura il moto perpetuo, non ci sono pasti gratis, e  in genere c'è sempre un trade off tra dare e avere. 
Sono molto critico sulla Europa dell'euro, credo che arrivati a questo punto, valutando bene i segnali dalla Germania che indicano possibilità di separazione,  e nonostante il tentativo di Macron, questa unione monetaria, salvo miracoli, è destinata per le sue contraddizioni economiche e politiche a disgregarsi. 
Per l'Italia la strada si fa dura avremo bisogno di elite competenti e preparate, che sappiano capire le dinamiche economiche, politche e sociali sottostanti a questo mondo complesso, serve realismo e visione. Nel breve periodo serve Keynes ma nel lungo bisogna guardare a Schumpeter, ricordandosi di Marshall. Un paese cresce se fa crescere la offerta ma non a discapito della domanda, favorisce il progresso tecnologico senza sfavorire i più deboli, guarda al futuro capendo i vincoli del presente, sfrutta al meglio le sue risorse materiali e immateriali, permette il ricambio generazionale e forma le persone favorendo l'ascesa di quelli più preparati perchè se ne avvantaggiano tutti, garantisce i beni comuni, fa sviluppare il mercato senza che questo fagociti tutti il resto, favorisce la giustizia sociale non per mero motivo etico ma perchè permette sviluppo e un equlibrio economico e sociale.

martedì 22 maggio 2018

Analisi a caldo del contratto di governo Lega-5 Stelle

Mi sono letto le 58 pagine del programma di governo 5 Stelle-Lega e vi dirò cosa ne penso in breve. Premetto che non ho votato nessuno dei due (ma anche per nessun altro) e non ho antipatie a priori. 
In generale il programma è poco dettagliato, molte enunciazioni di principio e poche misure concrete, anche se ammetto che sarebbe stato difficile fare un programma molto dettagliato date le condizioni. 

La cosa evidente è un programma più sul lato domanda che lato offerta e quindi troppo sbilanciato. Secondo troppa spesa e pochi tagli, quindi data la situazione troppo espansivo, ma andiamo con ordine. 
Acqua: tutto sommato bene, l’acqua è un bene pubblico ed è giusto ristrutturare la rete, quanto vogliono spendere e dove e come non è dato sapere. 
Agricoltura: giusto in linea di principio il contenuto, d’accordo molto sul miglioramento del made in Italy ma anche qui solo enunciazione di principio. 
Ambiente: anche qui in linea di principio tutto giusto dalla green economy alla manutenzione del suolo ma tutto molto generico e nessun numero e interventi concreti. 
Banca per gli investimenti: sulla carta potrebbe essere una cosa positiva in concreto non si capisce bene come funzionerà. 
Tutela del risparmio: affermazioni generiche, su MPS non si capisce bene cosa farne, insomma nel complesso poco chiaro. 
Conflitto d’interessi: anche qui giusto in linea di principio, non si capisce bene come si attua. 
Cultura: anche qui generiche affermazioni giuste di principio. 
Debito pubblico: sono totalmente d’accordo sul fatto di togliere gli investimenti produttivi dal conteggio del deficit, potevano dire qualcosa di più sul piano di investimenti di Junkers che, se potenziato a livello europeo, potrebbe dare un ulteriore slancio agli investimenti in Europa e utilizzare meglio le risorse e i soldi del QE. 
Difesa: assunzioni nelle forze di polizia ok ( comunque dei costi in più) , ok anche sulla valutazione delle missioni internazionali, potrebbe esser buono il punto relativo alla riforma patrimonio immobiliare della difesa da valutare cosa faranno effettivamente. 
Tasse: questa è la parte negativa per me dell’intero programma, la flat tax su due aliquote significa una riduzione delle tasse per i ceti più abbienti, quindi di fatto un mancato gettito, in un paese che ha un debito pubblico di oltre 2000 miliardi e 8000 miliardi di ricchezza privata non vedo la ratio, tra l’altro minori tasse significa maggiori spese private che portano anche a maggiori importazioni e quindi una tendenza a una bilancia commerciale negativa. Non ci sono studi teorici e pratici che confermino la validità della flat tax sul piano macroeconomico (la teoria del trickle-down è completamente falsa), insomma vedo solo rischi sui conti pubblici. A parte l’inasprimento delle pene non vedo niente per il reale recupero della evasione. Si fa menzione anche dei cosiddetti mini-bot ovvero della cartolarizzazione dei crediti fiscali, misura che difficilmente l’UE ci passerebbe. 
Giustizia: qui il discorso non è principalmente economico, comunque la parte relativa alla certezza della pena seppur giusta in linea di principio con tutti i corollari previsti finirà per riempire le carceri già sovra affollate; sulla giustizia civile tutto giusto voglio vedere cosa faranno. Va bene aumentare gli organici della polizia penitenziari (+ costi) e sul piano delle edilizia penitenziaria quanto e quando si vuole realizzare?

Immigrazione: in linea di principio è giusto dare una stretta ma come si gestiscono i flussi in entrata? Non mi pare che l’Europa ci ha dato troppo una mano, bisogna veder in pratica cosa effettivamente faranno. 
Lavoro: ok alla riduzione del cuneo fiscale ma quanto costa ? Reintroduzione dei voucher ho dei dubbi che saranno in grado di evitare gli abusi. Va bene al potenziamento dei centri per l’impiego sulla carta in pratica vediamo se funzionano (+2 mdi). 
Lotta alla corruzione: in linea di principio cose giuste 
Ministero della disabilità: niente da dire mi sembra ok 
Legge Fornero: la reintroduzione della quota 100 è troppo costosa, si potrebbe rendere un poco più flessibile la uscita con minor impatti sul costo totale delle pensioni. Ok alla separazione della assistenza dalla previdenza ma bisognerebbe anche differenziare bene previdenza privata da pubblica (ex Inpdap) che ha appesantito il bilancio INPS. 
Politiche per la famiglia: ok ma quanto prevedono di spendere? 
Reddito di cittadinanza: a questi livelli è molto oneroso per le casse pubbliche e con cosa si finanzia? Ci si poteva limitare al momento alla estensione del reddito di inclusione. 
Riforme istituzionali: in linea di principio sono d’accordo. 
Sanità: da una parte si prevede una centralizzazione degli acquisti (ok), dall’altra si dice che va preservata la autonomia regionale che è uno dei motivi per il lievitare dei costi, non si dice niente su omogeneizzazione dei costi e prestazioni tra le regioni, altre cose sono potenzialmente giuste sulla carta (informatizzazione, ecc.). 
Scuola: mi sembrano molti discorsi un po’ vaghi e contradditori, sulla alternanza scuola lavoro andrebbe fatta una valutazione dei reali benefici piuttosto che bollarla come solo negativa. 
Sicurezza: ok all’aumento delle forze dell’ordine si ma quanto ? 
Taglio dei costi: va bene ridurre i costi della politica anche se non sono grandi risparmi, sulle pensioni in linea di massima ok ma non saranno grandi risparmi anche qui. 
Trasporti e telecomunicazioni: qualche idea anche giusta sulla carta ma non si sa quanto siano realizzabili, sulle TLC non pervenuto nulla. Su Alitalia francamente abbiamo già dato. 
Turismo: in via di principio giusto il rilancio del turismo da vedere cosa effettivamente si realizza, sulla piattaforma nazionale turistica precedenti esperienze dovrebbero sconsigliare certe avventure, d’accordo sulla web tax turistica. 
Unione Europea: in linea di principio sono d’accordo ma quanto siamo in grado di incidere sull’effettivo cambiamento, si potevano indicare obiettivi di breve ( come detto proporre un piano di investimenti europeo), non si parla di rischi comuni ( ad esempio euro bond). 
Università: anche qui affermazioni di principio molto generiche (meritocrazia), qualche cenno sulla formazione tecnica ITS (troppo poco), piuttosto che generalizzare la riduzione delle tasse andrebbero favorite le lauree che ci danno valore aggiunto (area scientifica tecnologica), avere più laureati in giurisprudenza non serve a molto. 
Cottarelli ha stimato 125 miliardi di maggiori uscite ma non so come ha fatto visto che gli impegni sono generici. 
In generale ci sono molti buoni propositi ma poco declinati nello specifico, senza indicazioni di quantità e importi. Non vorrei parlare di libro dei sogni ma molto si avvicina. Una manovra seria dovrebbe tenere comunque conto della situazione debitoria, il limite del 3% è pure una stupidaggine ma dovendo scegliere favorirei più investimenti produttivi e infrastrutture che spese per quanto giuste. Si agisce sulla domanda ma nel contesto in cui siamo, euro e globalizzazione, significa aumentare la domanda di prodotti esteri e rischiare di mandare in negativo la bilancia dei pagamenti. Lato offerta, cioè aumento del lavoro e della produttività delle imprese non vedo molto, se non cerchiamo di favorire anche le esportazioni le politiche sono troppo sbilanciate. Sulle tasse mi sembra un suicidio, il livello di tassazione in Italia è alto ma nella media dei paesi sviluppati, il problema sono i servizi che fornisce lo Stato che devono essere adeguati non ridurre ancora le entrate dello Stato; solo uno Stato che spende bene può favorire lo sviluppo di medio termine e dare respiro a chi è in difficoltà, con la flat tax si rischia di aumentare le diseguaglianze che già sono aumentate negli ultimi anni.

mercoledì 9 maggio 2018

Che spettacolo desolante

Normalmente dedico pochi post alla attualità politica italiana, che in genere è molto desolante, ma dopo due mesi dalle elezioni, alle quali mi sono astenuto dal votare per mancanza di un partito decente che potesse rappresentarmi, ci ritroviamo con un nulla di fatto e un balletto di dichiarazioni estenuanti e poco edificanti .
Uno degli indiziati è la legge elettorale (Rosatellum). Anche su questo  si dicono molte cose a sproposito. In primo luogo, come ha dimostrato il Teorema di Arrow non esistono leggi elettorali perfette che garantiscano una scelta efficace e allo stesso tempo democratica.
Il proporzionale garantisce, in teoria, maggiore rappresentanza e partecipazione, i sistemi maggioritari o a doppio turno sono più selettivi, ma hanno maggiori probabilità di garantire delle maggioranze. Data la situazione politica attuale, è abbastanza probabile che il maggioritario precedente (Mattarellum) non avrebbe prodotto comunque una maggioranza, pr

And now on Amazon: Economic Ideas

Is now available, for my english readers, the english version of my book: Economic Ideas -From  the Invisible Hand to Information Asymmetries, on Amazon.

martedì 24 aprile 2018

Dani Rodrik - Populism and the economics of globalization

Oggi parliamo di un altro articolo di D. Rodrik che trovate qui in originale, di seguito tovate la mia sintesi. Il tema è di attualità: populismo e globalizzazione. 
Per prima cosa, per l’autore, bisogna distinguere il populismo lato domanda e lato offerta, la globalizzazione aumenta il populismo che ha però orientazioni politiche differenti. Queste reazioni populistiche si differenziano in base alla forma di globalizzazione che viene ritenuta rilevante per la società.
Per quanto attiene ai modelli sul commercio internazionale, uno dei più importanti è quello di Samuleson-Stolper il quale afferma che, dati due paesi in condizione di mercato competitivo e senza una completa specializzazione, esiste un fattore di produzione che si trova svantaggiato nell’apertura al commercio, cioè avremo dei perdenti nel processo di liberalizzazione del commercio

Gli effetti redistributivi della liberalizzazione tendono a generare di norma effetti negativi maggiori dei benefici che producono e ciò è dimostrato da diversi studi (ad es. sugli accordi NAFTA). 

In principio i vantaggi del libero commercio dovrebbero servire a compensare i perdenti, come ammesso dagli esperti di commercio internazionale. Di fatto queste compensazioni non avvengono o sono inerenti ai sistemi di protezione e welfare in generale, come ad esempio in Europa. Le compensazioni specifiche sono inoltre costose e difficili da realizzare. 

L’opposizione popolare è alimentata dalle ingiustizie anche se la questione è complessa, le ingiustizie sono più rilevanti a livello locale che generale e una certa diseguale distribuzione della ricchezza viene comunque ritenuta accettabile. 
Un altro capitolo riguarda la globalizzazione finanziaria che anche ha i suoi vantaggi ma, d’altro canto, ha creato molta instabilità economica e anche questa ha generato degli effetti redistributivi. 
La globalizzazione finanziaria ha quindi contribuito insieme al libero commercio nell’esercitare una pressione negativa sulla quota di reddito da lavoro sul totale dei redditi. La mobilità dei capitali esercita infatti una minaccia reale: accettare salari più bassi altrimenti i capitali e le industrie si spostano all’estero. La mobilità del capitale aumenta la volatilità dei guadagni da lavoro e trasferisce sul lavoro il peso degli shock economici, e i lavoratori più colpiti sono quelli con le qualifiche e skill più bassi. Un altro aspetto è legato alla tassazione, le imprese e i capitali internazionali sono più difficili da tassare, pertanto il peso della tassazione si concentra sempre di più sul lavoro aumentandone generalmente il peso. 
La globalizzazione ha portato a una diminuzione delle ineguaglianze internazionali ma ha aumentato quelle nazionali. 
Anche la evoluzione tecnologica ha avuto un ruolo nella deindustrializzazione e nell’aumento delle diseguaglianze, ma è la globalizzazione ad assumere un ruolo più rilevante per le persone per le crescenti ingiustizie. 
Un ulteriore aspetto rilevante è come la rivolta populista abbia assunto forme differenti in diversi paesi.
 La maggioranza delle forme di populismo hanno assunto una connotazione di destra, queste hanno enfatizzato le divisioni culturali, etniche e religiose. Un altro tipo di populismo si genera a causa delle divisioni di ricchezza. 
Le linee di frattura economica create o approfondite dalla globalizzazione tendono a generare un potenziale sostegno pubblico per i movimenti con posizioni al di fuori dal mainstream politico, che si oppongono alle regole stabilite dal gioco. Ma il malcontento, raramente arriva chiaramente a soluzioni o prospettive politiche ben definite. Infatti si tendono a fornire narrazioni, i movimenti populisti forniscono fondamentalmente le narrazioni richieste per la mobilitare le persone   attorno alle comuni preoccupazioni. 
Ci sono tre diversi gruppi nella società: l'élite, la maggioranza e la minoranza. 
L'élite è separata dal resto della società dalla ricchezza.
La minoranza è separata da marcatori di identità: etnia, religione, immigranti/autoctoni. Quindi ci sono due divisioni: una etnografico/culturale e una basata su reddito e classe sociale. Con una certa semplificazione, possiamo dire che i politici populisti politici mobilitano le persone sfruttando uno o l'altra di queste due divisioni. Quando si enfatizzano le divisioni di identità (es. stranieri o minoranze) si produce il populismo di destra, quando si sottolineano le differenze economiche e di classe si ha il populismo di sinistra.
Il primo tipo di populismo è più comune in Europa e USA  mentre il secondo in Sudamerica.
Immigrati e rifugiati possono essere presentati come in competizione per il lavoro e i servizi pubblici con i nativi, ed in effetti in Europa i partiti di destra hanno cavalcato il tema che l’immigrazione corrode lo stato sociale. Quindi, anche se la causa principale del problema è economica, le manifestazioni politiche possono trasformarsi in aspetti etnici o culturali. 
In definitiva la globalizzazione crea dei problemi politicamente difficili da gestire. In passato la unificazione dei mercati nazionali ha richiesto un progetto politico gestito in maniera forte e centralizzata. 
L’idea di Keynes era che per armonizzare un sistema economico mondiale con commercio internazionale e mobilità di capitali è necessario lasciare spazio a politiche macroeconomiche nazionali. 
La grande sfida che devono affrontare i responsabili politici oggi è riequilibrare la globalizzazione in modo da mantenere un'economia mondiale ragionevolmente aperta e al contempo frenando gli eccessi
Abbiamo bisogno di un riequilibrio in tre aree, in particolare: tra capitale/impresa e il resto della società, tra governance globale e governance nazionale e tra le aree laddove i guadagni economici sono piccoli rispetto a quelle dove sono grandi. 
I benefici della globalizzazione sono distribuiti in modo non uniforme perché il nostro attuale modello di globalizzazione è costruito su una fondamentale e corrosiva asimmetria.
I nostri accordi commerciali e regolamenti globali sono progettati in gran parte con le esigenze del capitale in mente. Gli accordi commerciali sono guidati in modo schiacciante da un programma guidato dalle imprese. Il modello economico implicito è di tipo "a cascata": rendere felici gli investitori in quanto  i benefici fluiranno verso il resto della società, mentre gli interessi del lavoro (buona retribuzione, alti standard lavorativi, sicurezza dell’ impiego e diritti) hanno poca rilevanza. Per andare avanti, deve essere data una voce in capitolo al lavoro nell'impostare le regole di globalizzazione. In termini pratici, ciò richiede riconsiderare quali istituzioni multilaterali devono stabilire l'agenda globale e chi deve sedersi al tavolo delle trattative quando gli accordi commerciali vengono negoziati. 
Per quanto riguarda il riequilibrio della governance, si dovrebbe capire che ciò che deve fare l'economia mondiale non è gestire appropriatamente la governance globale. La maggior parte dei fallimenti nell'economia mondiale sono dovute infatti ai fallimenti della governance domestica
Quando il processo di politica interna fallisce, si pone il vero problema. Quindi il problema è allora di politica interna: l'eccessiva influenza politica di certi gruppi in cerca di rendita piuttosto che l'assenza di regole globali appropriate. Il rafforzamento della governance globale, in tali circostanze, potrebbe non funzionare, le regole globali a volte possono agire come contrappeso agli interessi protezionisti, ma è, altrettanto probabile, che le regole globali saranno scritte e amministrate da coloro con interessi molto particolari che dominano anche la politica domestica. 
Niente di tutto questo implica che non ci sia alcun ruolo per governance globale. Ma nel riequilibrare la globalizzazione verso la governance nazionale, dobbiamo capire che il miglior contributo che si può fare agli accordi globali è fare in modo che lo stato nazionale funzioni meglio piuttosto che indebolirlo/limitarlo.
Corrispondentemente, il ruolo appropriato per le istituzioni globali è quello di migliorare le principali norme democratiche di rappresentanza, partecipazione, deliberazione, stato di diritto e trasparenza. Infine, il nostro approccio alla globalizzazione deve concentrarsi nelle aree in cui i guadagni netti sono grandi. Oggi l'economia mondiale è aperta come non è mai stata, e la sfida più importante che deve affrontare non è la mancanza di apertura ma mancanza di legittimità. Il tradizionale approccio agli accordi di commercio che si concentra sullo scambio di accesso al mercato non è più appropriato. Le regole che devono essere sviluppate sono quelli che sottolineano il ruolo dell'equità, cercano di risolvere il problema del dumping sociale e ampliano gli spazi politici nelle nazioni  sviluppate e in via di sviluppo.

mercoledì 11 aprile 2018

Economia e politica: del mercato e dello Stato

Lo sviluppo delle economie occidentali, seguito da altre economie ora sviluppate, dimostra inequivocabilmente che il mercato è un motore imprescindibile per la crescita dell’economia. Questo perché, indubbiamente, la spinta individuale rappresenta un forte movente per chi vuole emergere nell’adottare le tecniche migliori per conquistare il mercato, senza spinta individuale le società crescono economicamente meno o solo sino ad un certo livello, come ci hanno mostrato i sistemi socialisti. Inoltre, come ha indicato Hayek, c’è anche un problema di informazione, il sistema dei prezzi può rappresentare un sistema migliore per far circolare le informazioni che sono disperse, ed è praticamente impossibile che tutte le informazioni rilevanti per far funzionare bene un economia siano centralizzabili e utilizzabili. Bisogna aggiungere che in tema di informazione Stigltz e Akerloff hanno dimostrato come le asimmetrie informative minino le basi della presunta efficienza del mercato. 
In sintesi il mercato, almeno dal punto di vista pratico, ha alcuni vantaggi, ma allora esiste “la mano invisibile” di Adam Smith? 
No, in teoria e in pratica, quella della mano invisibile è una teoria troppo naïve che tende ad essere propagandata dai liberisti che può avere un suo appeal ma è fondamentalmente falsa. Da un punto di vista teorico ad esempio la teoria dei giochi competitivi ci dice che gli equilibri (equilibrio di Nash) che si raggiungono non sono ottimali (in senso Paretiano). Inoltre, la storia ci dice che il mercato tende alle concentrazioni e in genere la competizione tende a generare dei mercati oligopolistici. Come si sa si nasce incendiari e si finisce pompieri, così l’audace imprenditore che crea un nuovo mercato cerca, nel tempo, di mantenere i suoi profitti e tende a inglobare i competitor o metterli fuori mercato; nel lungo periodo è vero che nasceranno nuovi imprenditori e nuove tecnologie (distruzione creatrice) ma nel breve gli incumbent cercano di bloccare chi può erodergli la posizione di vantaggio o, in altri casi, si creano oligopoli collusivi, insomma serve qualcuno che eviti tutto ciò e questo delicato ruolo di regolatore lo può assumere solo lo Stato. Inoltre, dobbiamo considerare che il mercato tende a creare esternalità cioè, ad esempio, scaricare l’inquinamento sulla collettività, ed esistono beni pubblici di cui può occuparsi solo lo Stato. Quindi, che vi piaccia o no, lo Stato è comunque fondamentale e ha quindi un ruolo non sostituibile. C'è del vero nella teoria delle scelte pubbliche, che afferma che i politici agiscono sulla base di interessi individuali e quindi cercano la loro utilità (rielezione) che ha poco a che fare con la reale efficacia dell'azione pubblica. Quello che non condivido è la conclusione, cioè che bisogna ridurre lo Stato (Stato minimo), come se fosse una funzione di cui fare la derivata.
Altri economisti (Schumpeter) hanno evidenziato l'importanza della preparazione dei politici e burocrati per il buon funzionamento dello Stato. Popper parla di buone istituzioni per evitare le degenerazioni del potere politico, un esempio è la costruzione di sistemi di check and balance nei poteri politici. Infine, quello che serve è una cittadinanza consapevole della sua importanza nel controllo, questo richiede anche qui formazione e istruzione, anche perché la complessità dei sistemi economici e politici è in aumento. A questo dovrebbe servire la vera "buona" scuola e la informazione giornalistica, oggi abbiamo anche la grande risorsa che è la rete. Sul giornalismo conosciamo i condizionamenti del potere economico e anche sulla rete abbiamo visto, anche recentemente, come può essere un mezzo per veicolare informazioni interessate o fuorvianti. Insomma la situazione è complicata. Aggiungiamo pure che il mercato è sempre più internazionale mentre le nazioni operano a livello locale, servirebbero buone regole e istituzioni internazionali, ma anche qui molte istituzioni sono condizionate anche ideologicamente (vedi FMI o Banca Mondiale), basta leggersi qualche libro di Stiglitz.

Il quadro è complesso e non esistono soluzioni semplici, il primo passo è comunque informarsi e io nel mio piccolo cerco appunto di fare questo, mettendovi in evidenza libri o articoli che possono darvi una mano a districarvi meglio in questa realtà.

venerdì 6 aprile 2018

Teoria delle élite

Quando rifletto sulla realtà che ci circonda e penso a tutto quello che ho letto in tema di politica, storia, sociologia ed economia, finisco per pensare che la teoria che, con tutti i limiti del caso, meglio si adatta a comprendere la realtà e la sua dinamica sia la teoria delle élite di Pareto. Pareto elaborò questa teoria nel suo Trattato di sociologia[1], scritto dopo essersi dedicato, per lungo tempo, ai temi economici. Evidentemente Pareto, di formazione scientifica, ingegnere come me, studiando la economia si era reso conto che, per quanto volesse schematizzare la realtà secondo criteri di logica (il famoso homo oeconomicus razionale), c’era qualcosa di più profondo da indagare per capire la dinamica storica e sociale. 
Il suo libro è vastissimo e anche molto pesante da leggere, io ho letto solo alcune parti e alcuni saggi, se vogliamo sintetizzare la sua teoria ci dice che nel corso della storia tendono a prevalere in certi momenti alcune élite che sono dotate delle caratteristiche adatte (lui le chiama “derivazioni”) per poi essere sostituita da altre élite, la storia infatti non sarebbe altro che un cimitero di élite. Ovviamente non è una teoria del tutto originale e comunque riduttiva, la realtà e sempre più complessa e rifugge dalle eccessive semplificazioni, ma sostanzialmente contiene molta verità. 

Provo a ricostruire la storia umana (senza la pretesa di essere esaustivo), in forma molto sintetica, semplificata e molto a grandi linee, secondo questa teoria, con le mie variazioni, le élite che emergono sono quelle che hanno alcune caratteristiche che dipendono dal contesto storico, economico e sociale del periodo, evidenziando anche la connessione tra potere e idee. 

Inizialmente la caratteristica principale era la forza, il capo tribù era il più forte e rispettato per questo. Quindi possiamo dire che nella prima fase conta il fattore fisico o se vogliamo militare. 
Con la evoluzione della società in forme più complesse il potere politico è ancora potere militare, anche se il potere politico incarna, ad esempio Civiltà Egiziana, anche quello religioso. Questo aspetto è meno evidente nella Civiltà Romana inizialmente, anche se in età imperiale la figura dell’Imperatore assume un connotato religioso (deificazione). Con l’affermarsi della religione cristiana, l’Impero Romano arriva ad incorporarla come sua religione, ma con la costituzione del potere papale abbiamo due élite che si contendono il potere, quella militare e quella religiosa, con i contrasti e lotte a cui assistiamo lungo molti secoli. Il potere politico tende a voler incorporare il potere religioso (vedi ad esempio scissione Chiesa Anglicana) nello Stato, mentre il potere religioso vuole anche il potere politico o temporale come si usa dire. 
Nel corso del medioevo si assiste ad una modificazione socio-economica, compaiono le banche, i commerci assumono sempre più importanza, cresce quindi la importanza del denaro e del potere economico. Cresce la classe, come direbbe Marx, “borghese”, ma la evoluzione economica e anche tecnologica (la invenzione della stampa) portano alla diffusione di nuove idee che (vedi articolo di Rodrik) si intrecciano con gli interessi. 
Le nuove élite economiche chiedono maggiori poteri al potere politico (re e aristocrazia) e si indebolisce la forza del potere religioso, grazie anche appunto alle nuove idee (Illuminismo). L’insieme di queste dinamiche sfocia nella richiesta di maggiori poteri della “borghesia” che porteranno in Francia alla Rivoluzione Francese.
Il 1800 è un secolo di ulteriore cambiamento: evoluzione socio economica (Rivoluzione Industriale) con le  lotte tra antico regime e nuove forze sociali per il potere, in questa fase conquista sempre più potere la borghesia che è ormai fondamentalmente industriale e finanziaria. I cambiamenti economico e sociali come sempre sono accompagnati dal nascere delle idee che si combattono,  la economia classica in gran parte tende a favorire le élite economico/industriali, ma si sviluppano le idee socialiste e marxiste che rappresentano la classe dei lavoratori, che cresce e acquisisce la consapevolezza della propria forza. 

Il 900 è ancora teatro di scontri di potere e di idee, la classe lavoratrice vuole più potere e quindi anche più rappresentanza e democrazia, il potere economico cerca di mantenere e condizionare il potere politico effettivo in virtù delle sue leve economiche anche attraverso la stampa. In alcuni Stati i lavoratori riescono ad ottenere miglioramenti politici ed economici (welfare state), in altri prevalgono le istanze rivoluzionarie (Rivoluzione Russa), dove a dispetto di quello che ci dice Marx, è un élite rivoluzionaria, in base alla ideologia socialista, che prende il potere in un paese che era molto arretrato, anche culturalmente, e fondamentalmente agricolo. 
In altri paesi (Italia, Germania e Spagna) la reazione del potere economico, grazie anche alla accettazione di una parte della popolazione, porta alle dittature nazionaliste, che una volta al potere prendono il sopravvento e portano alla Guerra. 

Il secondo dopoguerra è un periodo molto particolare e per i paesi occidentali favorevole. Dopo la guerra, ci sono le condizioni economiche (ricostruzione) e anche istituzionali internazionali (Bretton Wood) per una sostenuta crescita economica. Il potere economico/capitalistico ha tutto il vantaggio di concedere alcuni miglioramenti alle classi lavoratrici, dalla altra parte del muro c’è l’ideologia comunista e la Unione Sovietica. 
Nel anni '70 si modifica il quadro, la crescita diminuisce, viene meno il sistema di Bretton Wood di cosiddetta repressione finanziaria, si sviluppano idee liberiste (Monetarismo) a supporto di maggiore libertà finanziaria ed economica. 
Il crollo della Unione Sovietica segna la vittoria del liberismo e il riappropriarsi di maggior potere delle élite economico finanziarie. Aumenta la globalizzazione, molte economie escono dalla povertà e dal sottosviluppo, ma nei paesi occidentali aumenta la diseguaglianza e la concentrazione di ricchezza. Il peso e forza della finanza internazionale aumenta, vengono eliminati alcuni limiti e la finanza dilaga senza controlli; ma arriva il “redde rationem”: la crisi finanziaria, dove ancora una volta le élite economiche alla fine, grazie al loro potere effettivo economico e ideologico, fanno pagare il grosso dei debiti alle classi lavoratrici.
Quindi siamo arrivati ai nostri giorni, chi è l’élite al comando? Ancora quella economico/finanziaria e quella industriale che ha mutato ancora aspetto, dove a contare sono i grandi player informatici/tecnologici (Google, Apple, Facebook, Amazon. ecc.). Le classi lavoratrici sono schiacciate, il potere degli Stati nazionali, che cercava di mediare tra il potere economico e le istanze della maggioranza (elettori), è diminuito, minori introiti (maggiore elusione fiscale) e minor possibilità delle aziende internazionali di essere condizionate. 

Arriva la reazione dei cittadini, la prima (Occupy Wall Street) dura poco, nel corso del tempo però aumenta lo scontento nei paesi occidentali, con la conquista di sempre maggior forza elettorale di movimenti cosiddetti populisti a destra e a sinistra; i partiti tradizionali perdono peso, le situazioni politiche si fanno ovunque più incerte e confuse, in alcuni casi (vedi Grecia) la salita al potere di Syriza viene depotenziata dal potere economico finanziario. 
La situazione è quindi molto confusa, il potere è ancora saldamente in mano alle élite economico-finanziarie, ma le condizioni di molti in occidente sono in peggioramento e anche nei paesi in via di sviluppo incominciano a nascere esigenze di miglioramento delle condizioni del lavoro e di richiesta di maggior democrazia, anche se ancora poco efficaci e confuse. 
Per superare questa impasse serve, soprattutto, una consapevolezza da parte delle maggioranza dei cittadini dei loro veri interessi senza farsi sviare da condizionamenti (così come riportato nel articolo citato di Rodrik), servono quindi idee e modalità nuove aggreganti, capaci di indicare una strada alternativa. Servirebbe, quindi, anche un élite, capace e preparata, in grado di interpretare queste istanze e idee conducendoci su una nuova via che sappia contemperare progresso con equità e anche salvaguardia dell'ambiente.
Sono molto pessimista al momento, non ci sono le condizioni, più che politici illuminati prosperano i populismi, il problema nuovo che si pone è che le élite hanno sempre creato disastri con guerre e stragi di gran parte della popolazione, oggi però rischiamo anche la distruzione completa del nostro habitat e del genere umano. 




[1] V.Pareto,Trattato di sociologia generale, Einaudi, Torino.

venerdì 30 marzo 2018

D. Rodrik - The Political Economy of Ideas:On Ideas Versus Interests in Policy Making

Oggi vi vorrei parlare di un articolo molto interessante di D. Rodrik sulle idee e gli interessi nella politica. E’ un articolo che trovate qui (in inglese obviously), è molto lungo e in alcune parti è di difficile lettura per gli aspetti matematici, per questo ve ne offro una sintesi. 
Lo scopo del articolo è creare uno schema relativo al ruolo delle idee come catalizzatore dei cambiamenti politici e istituzionali. 

Per prima cosa bisogna distinguere gli interessi personali dalle idee. 

Quelli che Rodrik definisce “political entrepreneurs” sono coloro che cercano di persuadere il pubblico ad adottare nuove politiche o istituzioni convincendoli che il mondo è cambiato. In alternativa cercano di enfatizzare le identità, i valori o qualche principio normativo ( es. libertà). 

Ci sono dunque due tipologie di idee: quelle che cercano di modificare la opinione del pubblico su come funziona il mondo (worldwiew politics), e quelle che riguardano le identità degli elettori e la loro percezione sulla loro identità. Infatti gli individui hanno molteplici identità (etniche, di razza, religiose, nazionalità) che possono essere rilevanti in momenti diversi. Queste identità possono essere mutevoli e soggette alla influenza di attori politici e azioni politiche (identity politics). 

Considerando una condizione normale in cui è l’elettore mediano a determinare le scelte politiche, per coloro che appartengono alla classe di alti redditi si pone il problema di come spingere verso una nuova politica che ha effetti redistributivi contrari alla maggioranza (quelli a basso reddito). 
Una delle opzioni possibili è disseminare idee che alterino la visione del mondo o le identità dei votanti o entrambe. 
Uno dei mezzi è la creazione di opportuni “meme”, che sono definiti come una combinazione di segnali, narrazioni, simboli tali che una esposizione ad essi può modificare la visione del mondo o rendere una identità rilevante. 
Un esempio può essere quello della austerità che viene giustificata secondo la visione (sbagliata) che il governo si deve comportare come il cittadino e non vivere al di sopra dei propri mezzi. 
La scelta tra questi differenti tipi di meme (policy meme o identity meme) per coloro che vogliono modificare le scelte degli elettori dipende da quale è politicamente più conveniente. Ad esempio, agendo sulla identità si possono creare delle convergenze tra i ricchi e i poveri per modificare le politiche a vantaggio dei ricchi. Analogamente con i meme politici si può modificare la percezione del mondo da parte dei poveri o meno ricchi cosicché una politica a loro avversa non appaia più tale. 
Quindi interessi e idee contano entrambi nel modificare le politiche e le istituzioni e si possono anche a rafforzare vicendevolmente. 
A volte può capitare che le idee nate per favorire certi interessi possano ritorcersi contro, un esempio che fa l’autore è quello della Brexit dove gli interessi finanziari che hanno sospinto le idee dell’austerità e del pareggio di bilancio possono aver favorito la vittoria della Brexit che è invece negativa per la comunità finanziaria inglese. 
In genere coloro che vogliono modificare le percezioni e condizionare il voto si rivolgono a quella parte dell’elettorato che è importante condizionare per modificare l’esito del voto. Inoltre, l’aumento della diseguaglianza aumenta il guadagno che i ricchi possono ottenere da politiche di condizionamento politico che hanno successo. 
Le evidenze empiriche, che mostrano una scarsa propensione all’ottenimento di politiche distributive negli Usa, dimostrano il successo ottenuto dai think-tanks nel disseminare le idee che la crescita delle diseguaglianze è dovuta ai cambiamenti strutturali della economia globalizzata, che portano inevitabilmente alla deregolamentazione finanziaria e all’abbassamento delle tasse sui guadagni finanziari. 
Le idee introdotte per mezzo dei “meme”, alterando la visione del mondo e dell’identità hanno dunque il potenziale per modificare gli equilibri politici. 
Le idee possono influenzare direttamente i guadagni percepiti associati con le scelte politiche, sia spostando la percezione sullo stato delle cose o influenzando il menu di opzioni strategiche attraverso (per esempio) la definizione di nuovi strumenti di politica. 
Ad esempio, gli imprenditori politici possono manipolare la visione del mondo o la identità "primaria" dell'elettore anche attraverso lo sfruttamento diretto dei pregiudizi comportamentali degli elettori nella elaborazione delle informazioni. In effetti è ben documentato che influenzando l'ambiente e i media si può "indurre” l'elettore nell'identificarsi con una particolare identità sociale o divenire fautore di una visione politica del mondo. Infine, i meme possono essere implementati per esacerbare e sfruttare le informazioni asimmetriche. 
Ad esempio, nel periodo successivo alla crisi economica, che ha portato alla esplosione dei deficit, è stato più facile convincere gli elettori che l’austerità è la politica più adatta attraverso l’adozione di meme che portavano a considerare il governo come un individuo (vivere al disopra dei propri mezzi). 
Una maggiore polarizzazione dell'identità nell'arena politica è spesso associata alla prevalenza di contraddittorie "credenze" tra i segmenti della popolazione. Ad esempio, alcune false convinzioni, come "Il presidente Obama è un musulmano" ,sono prevalenti in ampi segmenti della popolazione. Allo stesso modo, nonostante l'aumento dei livelli di istruzione e una maggiore prevalenza di informazioni, vi è stata una persistenza nella prevalenza di idee/meme che negano il fatto che il riscaldamento globale sta avvenendo o che l'equilibrio di bilancio e l'austerità fiscale potrebbero essere ottimali per un paese, persino nel mezzo di una recessione. 
A volte le idee anticipano gli interessi, come nel caso del taglio di tasse di Reagan in base alla curva di Laffer che inizialmente non furono ben viste dalle élite economiche. 
E’ comunque difficile distinguere in teoria interessi è idee, se una lobby persegue un suo interesse è perché ha interesse in quella politica o perché delle idee hanno trasformato la visione di come interpretano i loro interessi? 
In particolare i comportamenti ex-ante, che sono predicibili sulla base di caratteristiche o visioni del mondo che sono prevalenti, possono essere attribuiti agli interessi. Mentre i comportamenti ex-post dovuti ai cambiamenti nelle preferenze o sulla visione, per effetto di meme o narrazioni possono essere attribuiti alle idee politiche. 
La conclusione dell’autore è che le idee di oggi possono divenire interessi domani, nel breve periodo abbiamo soprattutto interessi, nel lungo quasi tutte idee
Diciamo che le idee dell’articolo non sono nuove e si ricollegano a molte teorie o cose che di fatto sapevamo già, certo il pregio di Rodrik è quello di riuscire a schematizzare e semplificare il contesto illuminando le idee confuse che spesso abbiamo. Se vogliamo alcune cose le sapevamo già dai Romani per cui "divide et impera" era una loro massima, qui sicuramente abbiamo degli spunti che rendono il tutto più scientifico. Questo articolo ci deve rendere ancora più sospettosi di certe teorie strombazzate a destra e a manca che ci solleticano la pancia, la massima di Einaudi conoscere per deliberare è sempre valida, per cui cercate sempre di sentire più campane su ogni argomento e anche campane non ufficiali (giornali e tv spesso sappiamo di chi sono al servizio) e, soprattutto, di avere ben a mente quali sono i nostri veri interessi come cittadino di questo grande paese ed essere vivente su questo piccolo e bellissimo pianeta.