domenica 8 dicembre 2019

Carlo Cottrelli - I sette peccati capitali dell'economia italiana

Questo è l'ultimo libro del famoso Carlo Cottrelli che scrive un libro all'anno ormai.
Quali sono i 7 vizi capitali? In realtà sono 6 e precisamente: evasione fiscale, corruzione, eccesso di burocrazia, il crollo demografico e il divario tra sud e nord.
Su ognuno di questi l'autore mostra i dati, anche di confronto con gli altri paesi, e cerca di indicare cosa è stato fatto e cosa si può fare. Riconosce che ognuno di questi mali è endemico e quindi non spiega il fatto che il PIL sia rimasto stagnante nell'ultimo ventennio. Qui interviene l'ultimo vizio ovvero la difficoltà a convivere con l'euro.
La tesi convince a un certo punto in quanto le difficoltà sono state comuni a molti paesi del sud europeo, anche se qualche paese, Spagna e Portogallo, sembra nell'ultimo periodo stia recuperando qualcosa. Questo ragionamento mi sembra un tantino contorto infatti, poi, ammette che uscire dall'euro potrebbe risolvere i nostri problemi di produttività e di debito  per quanto oneroso con tagli ai salari reali e comunque sarebbe un periodo turbolento. Sarebbe preferibile per Cottarelli  rimanere nell'euro e risolvere i problemi  dei 6 vizi capitali precedenti, ma ammette che sia difficile; comunque osservo che all'inizio aveva fatto notare che questi problemi non sono la causa del nostro rallentamento degli ultimi 20 anni per cui qualcosa non mi torna. 
La verità, a mio parere, è che siamo un paese problematico, che ha ingigantito  negli anni '80 il suo debito pubblico che è rimasto un fardello pesante da gestire, inoltre, poco si è fatto per riformare in profondità il paese, se a questo aggiungiamo l'adozione dell'euro, che è stata una scelta azzardata in queste condizioni e che ha indubbiamente condizionato il nostro sistema produttivo, abbiamo questo risultato. 
Cottarelli rimane, comunque, un economista serio e onesto intellettualmente e il suo libro è comunque interessante e piacevole da leggere.

mercoledì 20 novembre 2019

Luigi Zingales - Manifesto capitalista

Il libro è di Luigi Zingales economista da molto tempo negli  Stati Uniti. Partiamo dal titolo, quello in italiano mi sembra un poco fuorviante mentre quello in inglese "Capitalism for the people" mi sembra più significativo. Infatti, Zingales è un fautore del mercato e del capitalismo ma il libro in larga parte è una critica riferendosi quasi esclusivamente agli Stati Uniti.
La critica di Zingales si concentra  sul fatto che il capitalismo ha imboccato una strada che lo allontana dalle origini portandolo ad alcune degenerazioni. I suoi strali in particolare si focalizzano sul mercato finanziario e il lobbismo
Del mercato finanziario, che  ha originato  la tremenda crisi del 2008, si è è perso il controllo grazie anche alle regolamentazioni che lo stesso sistema finanziario ha in qualche modo imposto alla politica.
Il lobbismo, invece per quanto riguarda il mondo produttivo, è divenuto una pratica invadente che condiziona pesantemente anche qui la politica (teoria della cattura). Tutto ciò ha alterato lo spirito del capitalismo che dovrebbe essere concorrenza e meritocrazia. Le sue proposte sono di porre dei limiti a questa situazione con regole semplici ma efficaci, perché ogni complicazione in realtà favorisce le grandi corporations che possono sfruttare la complessità per trovare scappatoie ed eludere le regole. Insomma Zingales rimane un liberale a favore del mercato ma non dell'affarismo sfrenato, favorevole alla concorrenza perché è quella che produce nel tempo i migliori risultati per la società.
Sul fatto che le regole dovrebbero essere semplici sono perfettamente d'accordo, come anche che il mercato dovrebbe essere il più concorrenziale possibile. Quello che critico è che Zingales si concentra troppo sul mercato tralasciando il fatto che per elaborare e far applicare le regole serve uno Stato forte (e direi anche democratico), perché  la tendenza del mercato è quella  alla concentrazione come è successo nel'800 con le grandi compagnie petrolifere e oggi con i giganti del web. 
Un altro aspetto che non mi piace del libro è l'atteggiamento molto negativo verso il paese natio ovvero l'Italia; certo il nostro paese ha molti difetti sia in termini di corruzione che nepotismo, e per un giovane, come era  Zingales, entrare nel mondo dell' Università, senza spinte o  compromessi, restava abbastanza precluso. Resta il fatto che il nostro è un paese comunque industrializzato e ricco di tante eccellenze, dove il talento è comunque meno premiato che negli Stati Uniti, ma non è un paese da terzo mondo come l'autore pare descriverlo. Nel complesso un libro interessante ma divulgativo, che affronta i temi in maniera non eccessivamente approfondita e non paragonabile ai libri che ho segnalato recentemente in questo blog.

giovedì 31 ottobre 2019

Raghuran Rajan - Il terzo pilastro- La comunità dimenticata dallo Stato e mercati.( The Third Pillar)

L'autore del libro è un economista indiano che ha lavorato a lungo negli Stati Uniti, Chief Economist del FMI e insegna alla University di Chicago, autore di alcuni libri tra cui Terremoti Finanziari. I pilastri di cui parla l'autore sono: il mercato, lo Stato e le comunità locali.
Una buona parte del libro è dedicata alla ricostruzione storica, come dalla società feudale si siano andati sviluppando lo Stato nazione e il mercato, in parte favorendosi vicendevolmente. 
Il processo è stato lungo ed è partito dalla Gran Bretagna per poi estendersi a tutti le nazioni sviluppate. Nel '800 il mercato tende a prendere il sopravvento con la costituzione delle grandi corporation, con la conseguente reazione che tende a limitarne l'estensione  con le prime leggi antitrust  negli Stati Uniti. 
Il terzo pilastro, le comunità locali tendono invece a perdere terreno col tempo. 
Dopo la Grande Depressione lo Stato tende a riappropriarsi del controllo di molte attività e ad ingrandirsi, processo che tende a continuare dopo la seconda guerra mondiale per circa 30 anni, in cui nei paesi occidentali avviene un grande sviluppo, con il mercato che mantiene  anche una funzione sociale. 
Le cose cambiano a partire dagli anni '70 con l'incremento della globalizzazione e la rivoluzione ICT, entrambe rafforzano il potere del mercato, divenuto transnazionale e quindi meno sotto il controllo degli Stati nazionali che cominciano a perdere terreno, incapaci e senza le necessarie risorse per tener fede alla promesse della politica nel dopoguerra sul welfare-state.
Viene pertanto crescendo il malcontento popolare, sopratutto dopo la grande crisi del 2008, con rinascita dei movimenti populisti di vario genere sia negli Stati Uniti e sia  in Europa. Alcune comunità con la delocalizzazione delle imprese tendono a diventare depresse e abbandonate, mentre fioriscono alcune città dove nascono le nuove imprese e attività (ad es. Los Angeles e San Francisco).
Una parte del libro è anche dedicata alla storia e alle differenze tra i due giganti dell'est India e Cina con le loro specificità e con le loro debolezze.
Nella parte finale l'autore auspica un recupero delle comunità locali (localismo inclusivo), esemplificando alcuni casi di successo ma anche ammettendo che il processo non è semplice, e lo Stato dovrebbe favorire quanto più possibile anche il processo di decentramento. Anche il mercato dovrebbe cambiare, dovrebbe, ad esempio, essere garantita maggiore concorrenza, evitando ad esempio l'eccessivo potere di giganti (anche del web) o l'eccesso di difesa delle proprietà intellettuali.
La conclusione dell'autore è in sintesi che in un paese evoluto i tre pilastri dovrebbero essere tutti abbastanza forti e bilanciarsi tra di loro.
Il libro è quindi complesso e interessante trattando molti argomenti, comunque con chiarezza espositiva, pertanto la mia sintesi è forzatamente riduttiva, un libro che consiglio caldamente di  leggere.
Per quanto riguarda la tesi dei tre pilastri, il sottoscritto ha sostenuto in questo post la necessità di equilibrio tra i poteri dove io al posto delle comunità indicavo la democrazia.
Concordo sul fatto che bisogna dare una aiuto alle comunità e decentrare alcune funzioni e attività dello Stato, anche se questo comporta sempre il rischio che le comunità meglio organizzate migliorino e quelle più povere continuino ad arretrare. Il punto è che io ho indicato la democrazia perché credo che sia un concetto più ampio e completo e forse dove sia possibile anche aver più spazio di manovra. Per aumento della forza della democrazia intendo maggiore partecipazione dei cittadini anche attraverso nuovi strumenti messi a disposizione dalle tecnologie, un miglioramento delle istituzioni che prevedano un  maggior coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni e nel controllo, con maggiore trasparenza del potere politico.  
Intendo, anche come indicato nel saggio di Manin, il superamento del concetto di democrazia intesa solo come democrazia parlamentare ed elettorale.

giovedì 17 ottobre 2019

Dani Rodrik - Dirla tutta sul mercato globale ( Straight Talk on Trade)

Questo di Dani Rodrik è l'ultimo libro uscito nel 2018. Chi segue questo blog conosce bene questo autore avendo recensito i suoi libri e alcuni articoli,  quindi i temi trattati sono in parte noti. 
Il titolo del libro forse è un poco fuorviante in quanto gli argomenti trattati sono diversi e non solo relativi al mercato, si parla di Stato, di economia e di politica,  ovvero affronta temi molto ampi. 
Per quanto riguarda il commercio e gli accordi commerciali, Rodrik rimarca come la globalizzazione, pur con alcuni vantaggi, non è una panacea per tutti e l'allargamento del commercio produce vinti e vincitori; gli accordi di commercio poi (es. TPP) tendono più a difendere gli interessi delle multinazionali che dei cittadini. 
La globalizzazione ha poi ridotto spazi per lo Stato e anche per la democrazia. In alcuni casi, vedi Europa, l'unificazione economica e monetaria ha portato ad una riduzione della sovranità senza avere delle istituzioni adeguate e anche democratiche. Tutto ciò ha fatto nascere risentimento nelle classi medie e basse che hanno sofferto della crisi, della globalizzazione ma anche della evoluzione tecnologica, dando spazio ai populismi di destra che in Occidente fanno leva anche sulle divisioni etniche (immigrazione) come si è visto con Trump o anche in Europa (Le Pen e  Salvini). 
Una parte del libro è dedicata alla economia e agli economisti e ai rapporti con a politica. Rodrik critica l'atteggiamento di molti economisti che assumono che il loro modello sia quello giusto quando in economia i modelli sono molti e ognuno va adattato al contesto prescelto, non esistono quindi verità assolute e gli economisti sbagliano quando parlano in pubblico o danno consigli alla politica, dando per scontate alcune ricetteProprio in politica evidenzia  la importanza delle idee (innovative) perché anche la politica non può essere ridotta solo a lotta per interessi precostituiti; infatti spesso le élite fanno ricorso alle idee, vedi liberismo, per giustificare delle politiche che sono vantaggiose per pochi e non per la maggioranza.
I problemi in atto sono complessi e non esistono soluzioni facili né per i paesi sviluppati né per quelli in sviluppo, che difficilmente possono ripetere il percorso di quelli sviluppati e rischiano una non-industrializzazione o deindustrializzazione precoce a causa della evoluzione tecnologica. L'arretramento dello Stato non si risolve con una maggiore regolamentazione internazionale, primo perché sarebbe molto difficile attuarla in un mondo multipolare e poi perché non è utile; servono delle regolamentazioni internazionali solo per quanto riguarda i cambiamenti climatici mentre per il resto servono poche regole e bisogna dare di nuovo forza agli Stati e alla democrazia. Servono sopratutto nuove idee che sostituiscano il mito del mercato autoregolantesi e a sinistra leadership preparate e illuminate.
Il libro si rivela quindi molto interessante e si legge con piacere pur rimanendo rigoroso e ben documentato.

venerdì 6 settembre 2019

Interesse personale e interesse della nazione

Ebbene abbiamo il nuovo governo, per giudicarlo aspettiamo un poco. 
Ma come  è nato per l'interesse del paese o interessi personali? Vediamo gli attori. 
Salvini è il primo che ha affossato il governo precedente convinto di poter andare alle elezioni e portarsi a casa la maggioranza e il potere, ma gli è andata male, grazie anche al tempismo e trasformismo di  Renzi. Quest'ultimo, che pure in precedenza aveva affossato ogni tentativo di accordo PD 5 stelle, ha repentinamente cambiato idea, anche perché se si andava alle elezioni perdeva potere visto che gli eletti del PD sono in buona parte di sua scelta e, comunque, se vuole farsi un partito come credo sia probabile ha più tempo per organizzarsi. I 5 stelle con Di Maio rischiavano alle elezioni una ulteriore riduzione dei voti e Di Maio di sparire dai radar della politica; Di Maio ha dovuto abbozzare e non fare il vice-premier ma almeno per un poco continua ad essere il capo politico e uno straccio di  poltrona ministeriale se la tiene.
Zingaretti inizialmente era tentato ad andare ad elezioni così almeno si toglieva di torno qualche parlamentare renziano ma poi ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco e fare l'accordo. Calenda è rimasto coerente con le sue idee e si è dimesso, fonderà un nuovo partito, apprezzo la coerenza ma c'è il rischio che la sua creatura si candidi alla irrilevanza come è successo a Monti. Grillo ha finalmente ripreso le redini del suo quasi partito benedicendo l'alleanza e stoppando le pretese di Di Maio, dimostrazione che il suo partito non esiste senza di lui e che non si può sfilare anche perché non ha fatto crescere abbastanza nessuno, lo stesso Di battista è un signor nessuno senza arte ne parte.
Insomma non nasce un governo sotto i migliori auspici, nato per interessi personali e per paura di affrontare le elezioni che per i due partiti si prevedevano poter essere una debacle. 
Personalmente penso che questi due partiti possano comunque fare meglio del precedente governo che ha fatto poche cose e alcune pure sbagliate e altre in cantiere che non promettevano niente di buono. Il programma al momento è un po generico con alcune cose buone sulla carta, credo che per il nostro paese sia meglio così, da questo guazzabuglio di interesse e paure potrebbe nascere anche qualcosa di buono e forse fermare la emorragia di voti verso il salvinismo che  mio parere è molto propaganda e poco costruttivo. Penso che ci siano molte cose che si possono fare per migliorare il paese se ci si rimbocca le maniche. Sopratutto bisogna riconquistare la fiducia di quelli che non votano e che potrebbero fare la differenza e arginare il voto di un elettorato troppo propenso a farsi abbindolare da promesse da marinaio.

lunedì 15 luglio 2019

Harari - 21 Lezioni per il XXI Secolo-Mondadori

Dopo i suoi precedenti libri: Sapiens-Da animali a dèi e Homo Deus, Harari, docente di Storia all’Hebrew University di Gerusalemme, ci propone un nuovo libro.
Sono 21 gli argomenti su cui Harari si sofferma nei 21 capitoli del libro ma, mentre nel primo libro era rivolto al passato e nel secondo al futuro, in questo si concentra sul presente.
Da una parte si sofferma sulla evoluzione della tecnologia che sta cambiando in maniera radicale il modo di vivere degli esseri umani, la tecnologia non solo rischia di creare un vuoto a livello occupazionale ma, sopratutto, evolve con una velocità superiore rispetto alla capacità umana di adattarsi. L'Intelligenza Artificiale potrebbe renderci la vita migliore ma, d'altra parte, rappresenta un grande rischio dal momento in cui questa potrà capire i nostri gusti e orientare le nostre scelte meglio di quanto riusciamo a fare noi stessi. Il rischio è quello di venir soppiantati dalle intelligenze artificiali passando così da fruitori/padroni a strumenti/servi delle élite che detengono strumenti di controllo cosi potenti.
Un secondo tema è quello delle narrazioni: politiche, religiose o morali. Tali narrazioni, in passato, hanno svolto il compito di unire ma anche dividere i gruppi sociali creando società e imperi ma generando anche guerre. Il punto centrale è che quasi tutte le narrazioni non sono più in grado di dare risposte ai grandi problemi del presente e non danno anche risposte sul senso della vita.
Le narrazioni politiche il liberalismo, in decadenza, e il nazionalismo, in ascesa, sembrano decisamente insufficienti per risolvere i grandi problemi attuali, ad es. il riscaldamento globale. D’altra parte anche le grandi religioni che hanno svolto un ruolo nel passato di coesione sociale, ma che l'autore critica aspramente, hanno perso capacità di prospettare una vera alternativa al senso di minaccia che incombe sul nostro futuro prossimo. 
Le grandi narrazioni che hanno accompagnato l’umanità per secoli sembra pertanto si stiano sgretolando. Per l'autore l'alternativa rimane il laicismo, un laicismo consapevole, al franare delle verità infallibili, essere ignoranti non è un problema lo è l’essere ignorante pensando di avere la verità in tasca. 
Se per secoli la filosofia ha spinto gli uomini a conoscere loro stessi, certamente questo imperativo non è venuto meno, al contrario diventerà ancora più importante. Se gli algoritmi capiranno meglio di noi ciò che ci accade, il controllo della nostra vita passerà davvero a loro.
Il messaggio conclusivo, alla fine del libro, è che dobbiamo sopratutto indagare su chi siamo, al di là di ogni narrazione, per scoprire davvero chi siamo. Soltanto così alla fine potremo davvero sostituire alle narrazioni una reale e vera conoscenza di noi stessi. Harari, come sempre, riesce a scrivere dei libri molto piacevoli e interessanti da leggere, rispetto ai due precedenti però questo libro risulta, a mio parere, molto meno convincente con pochi temi veramente nuovi.


mercoledì 5 giugno 2019

Commento post elezioni euopee

Le elezioni europee sono finite per fortuna, non ne potevo più di questa propaganda elettorale di basso livello. Ha vinto la Lega, hanno  perso, e male, i 5 Stelle, il Pd tiene, Berlusconi arranca e la Meloni avanza un poco. Niente di sorprendente, forse i numeri dei 5 Stelle sono peggiori del previsto e la Lega conferma i trend dei sondaggi; tutto previsto è da quando hanno fatto il governo che era chiaro che Salvini, più esperto, scaltro e navigato, avrebbe drenato voti. Dei 5 Stelle si conferma la mancanza di una vera leadership, se l'alternativa a Di Maio è Di Battista non promette niente di meglio, inoltre manca una strategia politica, l'attuale è un mix di istanze confuse e "barricadere " insieme al tentativo di rassicurare, non si può andare al governo pensando di fare sempre opposizione. Salvini manda messaggi semplici e chiari che vanno al cuore della gente, anche se alcuni sono sbagliati e altri pericolosi o controproducenti o semplici arruffianamenti elettorali, ma così funziona la politica. Nel PD Zingaretti ha cercato di evitare e comporre le rotture renziane, il suo carisma è basso è non sento grandi idee, almeno Calenda si mostra più preparato con un programma con dei contenuti condivisibili, e infatti almeno a livello personale ha avuto consensi, ma il mondo della sinistra non lo ama e lo osteggia quindi non lo appoggia, anzi se potesse lo distruggerebbe come ha fatto anche in passato con altri. La sinistra-sinistra è vittima delle continue divisioni, purtroppo non abbiamo neanche un partito verde forte e innovativo che potrebbe raccogliere voti a sinistra e nel voto giovanile. Non capisco neanche la Bonino che corre da sola e infatti non fa eleggere nessuno.
Salvini vince nonostante la battaglia contro di lui, che come al solito tende a demonizzare l'avversario, stesso errore fatto con Berlusconi, non è così che si sconfigge l'avversario e si riportano i voti a casa. La realtà è che ci sono state 22 milioni di persone che non hanno votato, ciò dimostra, al di là del fatto che queste erano elezione europee, che c'è una domanda di politica che non trova offerta.  Il futuro più probabile è che Salvini, prima o poi, si presenti all'incasso e vinca, e con la Meloni e pezzi di Forza Italia, ormai allo sbando,  possa governare, che sappiano farlo bene e nell'interesse del paese ho molti dubbi, perché se le soluzioni sono la flat tax e i minibot proprio non ci siamo. 
Qualche consiglio per gli altri.
I movimento 5 Stelle è in caduta libera se non riprende il comando Grillo, di cui spesso non ho spesso condiviso idee e atteggiamenti, rischia di perdere ancora voti, comunque non si costruisce un partito senza creare le condizioni per avere una leadership credibile e fino ad oggi non hanno fatto niente per costruirla.
Per il centro sinistra invece serve un opera di svecchiamento quasi totale. Prima di tutto non siamo più nei gloriosi, si fa per dire, anni '70, non esiste più una grande classe operaia, il mondo del lavoro è molto frammentato con situazioni disparate: dai disoccupati cronici, ai sottoccupati, gli occupati delle nuove tecnologie e servizi che non sono gli operai di una volta, insomma pensare di ritornare al PCI di Berlinguer è solo illusione retorica. Anche il mantra del "più Europa" andrebbe profondamente rivisto. L'Europa dell'euro degli ultimi 20 anni avrà avuto anche qualche aspetto positivo ma gli errori fatti, sia di impostazione e poi nell'affrontare in maniera sbagliata la crisi, hanno creato un gap di credibilità  nei cittadini verso delle istituzioni europee che difficilmente si può risolvere ripetendo le solite frasi fatte, mentre la realtà dei fatti è che molte persone si sentono impoverite e più insicure, facile preda del sovranismo. Anche nella sinistra serve gente nuova e sopratutto preparata che capisca che la Europa e la globalizzazione non sono la panacea sperata, quindi con le passate politiche bisogna prendere le distanze. 
Le soluzioni in parte sono anche  quelle che propone l'Europa ma senza accettarle tutte passivamente. E' chiaro che non si può tornare indietro, ma le riforme che servono devono guardare avanti senza lasciare nessuno indietro. Servono nuovi ammortizzatori sociali per proteggere ma dare opportunità di lavoro, a   questo serve anche  una formazione migliore e più orientata al lavoro anche quello che verrà, serve più ricerca, investimenti materiali e immateriali, serve una burocrazia rinnovata più efficiente e che non soffochi la iniziativa privata, una macchina fiscale più semplice che  eviti la evasione ed elusione di massa e dei grandi gruppi, una giustizia civile veloce ed efficace, bisogna dare spazio alla imprenditorialità che crea nuovi posti di lavoro e stangare quelli che cercano di approfittare solo delle rendite, non stangare i pensionati ma non guardare solo ad essi ma a quei tantissimi giovani senza lavoro e speranza. L'Italia può farcela, è un grande paese pieno di energie e intelligenze, ma queste intelligenze bisogna valorizzarle e la politica non può essere il ricettacolo dei peggiori fancazzisti che vengono a pontificare di cose che non conoscono, per un paese che vuole rimanere una potenza industriale serve gente seria e preparata, e anche un elettorato che non si faccia abbindolare da promesse irrealizzabili. 

venerdì 26 aprile 2019

Wolfgang Streek- Tempo guadagnato – La crisi rinviata del capitalismo democratico-Feltrinelli

Wolfgang Streek è direttore del Max Planck Institut per gli studi sociali e professore di Sociologia alla Università di Colonia. 
Il libro ricostruisce la storia dalla seconda guerra mondiale; il patto sociale del secondo dopoguerra si interrompe all'inizio degli anni '70, patto che prevedeva un alleanza tra governi e grandi imprese sotto l'egida di una guida tecnocratica per assicurare una crescita stabile e bassa disoccupazione (regime keynesiano). Dalla fine degli anni '60, con il rallentamento della crescita e le manifestazioni studentesche e dei lavoratori, si acuisce la insofferenza del capitale verso la mixed economy e incomincia una nuova fase, sostenuta dalle idee del liberismo (Hayek e suoi seguaci) per liberarsi dall'economia sociale di mercato. I primi segni sono i governi di Reagan e Thatcher che rappresentano una discontinuità col passato. 
Per evitare il peggio e il conflitto sociale si adottano delle politiche di compensazione (tempo guadagnato del titolo). Inizialmente è la politica monetaria ad essere utilizzata per far crescere i salari ma con la crescita anche della inflazione. Questo periodo finisce con una stretta monetaria ma, ancora una volta, si usa un ulteriore espediente temporaneo, l'aumento del debito pubblico. Anche questo periodo finisce e la preoccupazione del debito porta, nella maggiore economie, a programmi di consolidamento del bilancio che comportano tagli delle spese sociali. Anche in questo caso si ricorre ad un altro intervento per evitare ulteriori tensioni, si sostituisce l'indebitamento pubblico con quello privato (keynesismo privatizzato) ovvero la diffusione di un potere di acquisto anticipato provocando un aumento del debito complessivo. Ma questa piramide di debiti crolla nel 2008 con il collasso del sistema bancario e finanziario che abbiamo vissuto. La situazione attuale l'autore la descrive come contrapposizione tra il “popolo dello stato”, i cittadini ed elettori a livello nazionale, e “il popolo del mercato” gli investitori a livello internazionale. Lo Stato non è più in grado di esigere e aumentare le tasse (elusione ed evasione internazionale e concorrenza fiscale tra gli Stati) diventando uno Stato debitore sottomesso alla disciplina dei mercati finanziari, con conseguente indebolimento della democrazia, disaffezione degli elettori sempre meno partecipi e aumento delle diseguaglianze e della povertà nei paesi sviluppati, quelli meno sviluppati crescono grazie alla globalizzazione del lavoro ma con pochi diritti e democrazia. 
La parte finale del libro è dedicata alla Unione Europea e monetaria. Per l'autore Unione Europea è caratterizzata da un deficit democratico anche per le limitate competenze del parlamento europeo, con una svalutazione delle istituzioni nazionali senza che ci sia stata una contropartita a livello di istituzioni internazionali. L'Unione Europea è diventata una struttura internazionale in cui la democrazia è addomesticata, con un declino degli investimenti sociali (austerità) e un declino da parte dei cittadini delle aspettative verso la politica, i cittadini contano sempre meno. Definisce l'euro come un esperimento “frivolo” che ha voluto imporre una moneta unica a una società eterogenea e multinazionale. Per l'autore non è praticamente realizzabile una democratizzazione dell'Europa anzi è probabile e auspicabile un ritorno alla monete nazionali. Infatti, costituire una Europa democratica dovrebbe significare costruire istituzioni in grado di sottoporre i mercati al controllo sociale e quindi evitare l'errore compiuto fino ad ora di trattare economia e società indipendentemente l'una dall'altra. Non può nemmeno essere solo un progetto di omogeneizzazione istituzionale ma, cosa molto complicata, dovrebbe essere in grado di fare rientrare nel proprio ordinamento le differenze nazionali con una suddivisone federale e un ampia autonomia a tutela dei diritti delle minoranze, ciò avrebbe bisogno di molto tempo e una democrazia sovranazionale non può nascere certo da un parto intellettualistico volontario come è stato sino ad ora. 

Anche se molte delle riflessioni del libro non sono del tutto nuove per chi legge questo blog, il libro è scritto molto bene con grande chiarezza e capacità espositiva e merita una lettura.

mercoledì 3 aprile 2019

Barry Eichengreen-Hall Of Mirrors-The Great Depression, The Great Recession and the uses and misuse of history-Oxford Univeristy Press

Il libro che recensiamo oggi è molto approfondito e dettagliato e  in cui vengono spiegate in parallelo le due grandi crisi: la Grande Depressione degli anni '30 e la Grande Recessione del inizio del XXI secolo
Il libro descrive, con grande dovizia di particolari, fatti e personaggi della storia delle crisi evidenziando parallelismi e differenze tra le due crisi sia nel nascere che nella gestione. Ovviamente non posso descrivere facilmente tutto quanto viene riportato nel libro, che comunque consiglio di leggere, anche se non è un libro semplice  in quanto molto complesse e intricate sono le questioni analizzate. 
Quali sono le conclusioni dell'autore? Sicuramente la lezione della crisi degli anni '30 è servita principalmente negli USA e meno in Europa. Le conoscenze degli errori della Grande Depressione hanno infatti consentito di salvare dal disastro finanziario e hanno evitato livelli di disoccupazione troppo elevati. Gli interventi di salvataggio hanno evitato il peggio, anche se il fallimento di Lehman-Brothers è stato sottovalutato nei suoi impatti, inoltre le politiche fiscali espansive si sono interrotte troppo presto rallentando la ripresa. In Europa, invece, oltre ad aver fatto un unione monetaria senza unione fiscale e bancaria, la reazione ha portato presto a strette fiscali e controllo della spesa pubblica costringendo a una ripresa molto asfittica se non a situazioni di grave recessione, come in Grecia (ma anche in Italia) a seguito degli interventi della Troika. Inoltre, per quanto riguarda le riforme, mentre dopo la Grande Depressione le riforme (Steagall-Grass) sono state molto profonde ed efficaci, anche perché la crisi è stata più pesante, di converso l'evitare il peggio ha prodotto riforme (Dodd-Frank) molto ridotte, anche in Europa le riforme che ci sono state sono parziali e anche tardive.
In sintesi quello che ne esce è un quadro a tinte chiare e scure in cui la storia insegna ma non abbastanza. 
Se avete la possibilità (è solo in inglese) leggetelo perché veramente molto istruttivo e approfondito.

venerdì 29 marzo 2019

Bollofiore, Garibaldo, Mortagua - Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea –Rosemberg & Seller

Si tratta di un altro libro che essenzialmente è imperniato sulla crisi europea. Da una parte è critico con la visione ortodossa o liberista per cui la colpa principale sarebbe essenzialmente degli Stati troppo spendaccioni. Gli autori sono anche critici con la visione eterodossa della crisi (vedi ad esempio i libri di Bagnai). Secondo questa visione la colpa principale è da attribuirsi alla unione monetaria che ha acuito le divergenze dei paesi membri. Da un lato favorendo, con un cambio sottovalutato, la Germania che avrebbe anche praticato politiche di contenimento salariale. D'altra parte il sistema finanziario e bancario avrebbero favorito con la concessione di denaro l'indebitamento dei paesi del Sud (aumento del debito privato), grazie a questi due effetti si sarebbero determinati dei forti sbilanciamenti delle partite correnti (import/export commerciale). La crisi si sarebbe scatenata a seguito del “sudden-stop” dei finanziamenti che hanno provocato crisi di liquidità dei paesi del sud oltre a crisi bancarie, che con le politiche di austerità imposte (vedi Grecia) avrebbero determinato una ulteriore caduta del PIL. 

Queste tesi per chi legge questo blog non sono particolarmente nuove. Gli autori però pur condividendo in parte questa visione ne criticano la assunzione che sia l'unica  spiegazione e la ritengono troppo semplicistica. 

In realtà gli autori evidenziano che il focus solo sulle partite correnti sarebbe eccessivo, in realtà le difficoltà dei paesi del sud derivano dagli eccessi della finanza e di libertà dei movimenti dei capitali che sono antecedenti alla introduzione dell'euro e che hanno ad esempio determinato la crisi dello SME. Inoltre, è cambiata anche negli ultimi decenni la struttura industriale della Germania. Questa ha visto crescere un decentramento, integrazione e diversificazione (industria transnazionale) di alcune catene produttive verso est che ha consentito di ridurre i costi. Per i paesi del sud questo ha comportato una diminuzione dell'export di prodotti intermedi verso la Germania con un ulteriore problema rappresentato dall'aumento della concorrenza cinese. Il sistema industriale e manifatturiero del sud si sarebbe in qualche modo impoverito: restringimento quantitativo e qualitativo. Quindi non è solo l'euro ad avere colpa e l'uscita dall'euro non risolverebbe le sottostanti problematiche strutturali, la svalutazione non risolverebbe i problemi, acuendo d'altra parte i problemi del costo delle materie prime, e non ridurrebbe neanche la austerità anzi l'aumenterebbe. Gli autori non vedono quindi nella uscita dell'euro come la panacea di tutti i mali, ma quali sono le alternative? La proposta di una moneta comune (Brunhoff) ovvero di una moneta circolante tra Stati come unità di conto e saldo solo dei rapporti di credito/debito sul modello del bancor keynesiano è ormai non più applicabile. Superare gli squilibri richiederebbe un autentica unione bancaria e fiscale, un aumento degli investimenti pubblici finanziati da eurobond, ma anche un intervento sul lato offerta e della struttura produttiva, cioè politiche a breve e scelte strategiche di medio-lungo termine. Ma la prospettiva della Brexit ha allontanato la possibilità degli Stati Uniti di Europa; un alternativa potrebbe essere un nucleo duro di paesi alla formazione di un governo politico sovranazionale ma, realisticamente, gli autori ammettono che non c'è un grande consenso politico e sociale a una significativa rinuncia alla sovranità nazionale. Se comunque l'euro dovesse disgregarsi non porterebbe a due aree (Stiglitz) ma solo a una dimensione nazionale che esaspererebbe la concorrenza distruttiva tra i paesi dell'unione. 

Un libro quindi molto interessante e approfondito, anche se a volte dispersivo e non facile in alcuni passaggi per il lettore non esperto. Sono d'accordo che l'uscita dall'euro non è la soluzione, e che non c'è un problema solo di domanda ma anche di offerta, certo è che la situazione, come ammettono gli autori, è piuttosto ingarbugliata e non si vede una luce all'orizzonte, troppi errori sono stati fatti, sia in termini istituzionali sia economici nella risposta alla crisi, che hanno determinato un crollo di fiducia nelle istituzioni europee e una crescita del nazionalismo. Inoltre la Unione Europea soffre anche di un grosso deficit democratico oltre che di una scarsa visione economica. 

Vedremo cosa ci diranno le elezione europee, se la crescita dei nazionalismi finirà per far crollare definitivamente il progetto europeo così malamente condotto negli ultimi decenni o se questo porterà a un ravvedimento delle élite europee, certo è che senza un processo che preveda anche la effettiva  partecipazione democratica e consapevole dei cittadini non ci sono soluzioni a questa crisi in cui ci siamo avvitati.

lunedì 18 febbraio 2019

Bernard Manin - Principi del governo rappresentativo - Il Mulino

Il libro che presento oggi è un libro sulla democrazia e in particolare sulla sua evoluzione, è un libro molto interessante e ricco, inoltre scritto anche bene per cui lo consiglio caldamente.
La prima parte è dedicata a una ricostruzione della democrazia ateniese, tale democrazia prevedeva un assemblea popolare (non tutti i cittadini ma comunque un numero importante) per molte decisioni, inoltre  un sistema complesso basato per la maggior parte sulla selezione per sorteggio per molte funzioni che non erano svolte dalla assemblea, le cariche elettive erano ristrette solo ad alcune funzioni specifiche, militari o finanziarie. Il sistema di estrazione a sorte non termina con la democrazia ateniese, si ritrova anche nel antica Roma e poi a Firenze per la selezione dei magistrati e, sopratutto, a Venezia nel complesso sistema di elezione dei candidati del Maggior consiglio.
Con le Rivoluzione Francese e Americana il sistema a sorte non viene più considerato e avviene il trionfo delle elezioni. Elezioni dei rappresentanti che nelle intenzioni degli autori più autorevoli si manifesta come una scelta comunque aristocratica (oligarchica) dei migliori, comunque diversi e divisi dal popolo perché non vincolati nel mandato. Quindi una scelta quella delle elezioni democratica solo in parte cioè nella libertà di scelta (tra l'altro inizialmente  la platea degli elettori era limitata),  con  i candidati che facevano parte comunque di una élite fondiaria o per ricchezza e quindi la possibilità di candidarsi preclusa di fatto  alla maggioranza del popolo. Una delle caratteristiche del governo rappresentativo è infatti quello di distinzione, cioè che gli eletti fossero diversi (in qualche modo superiori) agli elettori. Questo aspetto in alcune democrazie venne esplicitato nel requisito censitario (per gli eletti e per gli elettori).  Anche laddove non venne posto esplicitamente ( ad es. Stati Uniti) la necessità di fondi per la campagna elettorali di fatto esprimeva un elemento di forte selezione. Un altro aspetto che distingue elettori da eletti è la mancanza di vincolo di mandato in tutte le democrazie parlamentari, ovvero gli eletti non sono vincolati nelle loro scelte parlamentari (indipendenza). Questo della distinzione è indubbiamente una caratteristica più oligarchica che democratica del sistema  di governo rappresentativo.  Come contrappeso a questa indipendenza esiste l'aspetto della libertà di opinione da parte degli elettori, ovvero la potenziale libertà di esprimere opinioni in qualsiasi momento. L'altro aspetto democratico è il carattere ricorrente delle elezioni  che incentiva i rappresentanti a tener conto dell'opinione degli elettori (almeno ex-post). In qualche modo il sistema rappresentativo non è quindi un sistema in cui la comunità governa se stessa ma un sistema che fa si che le politiche e le decisioni pubbliche siano sottoposte al verdetto del popolo.
L'autore analizza poi le modifiche intercorse nel tempo al governo rappresentativo. Il sistema iniziale, era quello parlamentare con i rappresentanti che non facevano parte di partiti organizzati ("parlamentarismo"), in cui il rappresentante aveva un rapporto diretto con gli elettori ma di fatto questi rappresentanti erano una  élite dei notabili. Nel tempo si sono affermati i partiti. Da una parte questo poteva avvicinare gli eletti agli elettori essendo questi ultimi socialmente più vicini agli eletti (nel caso dei partiti socialisti o socialdemocratici), anche se qualche studioso ha fatto osservare che questi deputati diventano a loro volta delle élite "de-proletarizzate".
D'altra parte la indipendenza dei rappresentanti dagli elettori viene in parte  ridotta dalla disciplina di partito e di voto. 
Nella democrazia dei partiti inizialmente le contrapposizioni elettorali tra i partiti riflettono le divisioni tra classi, con gli elettori sostanzialmente fedeli al partito (appartenenza e identificazione).
Un ulteriore evoluzione del democrazia negli ultimi anni è quella che l'autore chiama la democrazia del pubblico.  Una delle caratteristiche è che la gente vota in modo diverso da un elezione all'altra. Gli elettori infatti tendono più a votare una persona (leader) che un partito, in qualche modo un ritorno alla natura personale del rapporto di rappresentanza. In parte è anche dovuto alla differenza dei canali di comunicazione o media in gioco. I rappresentanti vengono scelti in base alla loro "immagine" in senso lato. In qualche modo la democrazia è determinata dell'elettore fluttuante e dai media di comunicazione, con la formazione di una nuova élite, élite politiche e mediatiche che non per questo sono più vicine agli elettori di quanto non lo fossero i rappresentanti di partito.
L'autore afferma che la democrazia si è forse allargata ma non è detto che sia divenuta più profonda.
In conclusione il governo rappresentativo possiede indubbiamente una componente democratica ma è altrettanto innegabile la dimensione oligarchica, cioè un sistema misto e complesso che assembla parti democratiche e non. Le elezioni appaiono come un metodo non egualitario perché non forniscono uguali chance ad ogni cittadino. D'altra parte tutti i cittadini hanno un uguale potere di designare e rimuovere i governanti. Le elezioni inevitabilmente selezionano una élite ma sta ai cittadini definire cosa costituisca una élite e chi vi appartenga.
In conclusione un libro molto interessante e approfondito  che svela anche gli aspetti non democratici degli attuali sistemi elettorali e di rappresentanza che non sono spesso esplicitati dai media.




mercoledì 16 gennaio 2019

Una modesta proposta al Ministro Di Maio sulle pensioni e lavoro

Egregio Ministro Di Maio vorrei farle una proposta semplice che a costo limitato potrebbe aumentare il lavoro e favorire il ricambio generazionale nelle aziende.
L’attuale e odiatissima legge Fornero prevede che, articolo 4, le aziende possano pre-pensionare i dipendenti con la cosiddetta iso-pensione, cioè il valore della pensione maturata al momento con 4 anni di anticipo sui tempi previsti di uscita in vigore (per età o per anzianità contributiva). Il costo è a carico della azienda che può essere interessata in quanto comunque avrebbe un certo risparmio: differenza tra valore iso-pensione e valore dello stipendio (al netto dei contributi compresi quelli a carico del dipendente che sarebbero comunque a carico della impresa) più altri risparmi vari di costi accessori (ticket, ecc.). Il risparmio per la azienda può essere stimato in un 20-30% del costo del lavoro. Il risparmio è quindi limitato per questo non ha trovato una grandissima diffusione tranne in grandi aziende, inoltre non c’è nessuna garanzia che a fronte di una uscita ci sia una nuova assunzione.
La proposta è di integrare con uno sgravio sui contributi previdenziali per 4 anni per ogni nuovo assunto a tempo indeterminato che rimpiazzi un lavoratore che esce. 
Il costo per lo Stato sarebbe molto limitato in quanto a fronte dell’esborso dei contributi c’è da considerare che avremmo un reddito in più che viene tassato (i contributi a carico della azienda sono circa il 30% della RAL le tasse dipendono dal reddito comunque si possono stimare ad almeno il 20%).
Quindi, con un esborso limitato a carico dello Stato si favorirebbe il prepensionamento e il ricambio generazionale nelle aziende rendendo l’art-4 sicuramente più appetibile.

lunedì 14 gennaio 2019

Elinor Ostrom - Governare i beni collettivi

Quello che presentiamo di oggi è un libro complesso per un argomento complesso. L’autrice, economista americana, per i suoi studi sulla gestione delle risorse comuni ha ottenuto il Premio Nobel per l’economia e questo suo libro è diventato un punto di riferimento sul tema.
I beni collettivi sono risorse, in genere naturali, sufficientemente grandi da rendere costosa l’esclusione di potenziali beneficiari dal suo utilizzo, esempi possono essere aree di pesca o bacini di acque per la irrigazione.
La novità è importanza degli studi della Ostrom risiede nel fatto che cerca di superare la tradizionale dicotomia nella gestione di tali risorse tra Stato e Mercato. Infatti, la teoria economica propende in buona parte per una gestione centralizzata da parte di un ente governativo o, per la tradizione più liberista, la privatizzazione con assegnazione di diritti esclusivi.
Nel libro l’autrice analizza molti esempi reali di beni collettivi dove si è tentata una terza via: combinazioni di strumenti pubblici e privati, cioè una gestione auto-organizzata da parte degli attori locali coinvolti (appropriatori/utilizzatori) con spesso l’aiuto di una autorità governativa che non interferisca con l’autonomia locale.
Non sempre queste soluzioni riescono a funzionare data la complessità delle situazioni e delle interazioni, l’autrice però dalla casistica esaminata individua alcune condizioni di fattibilità e i fattori critici di successo. Esempi di tali condizioni sono: che le risorse abbiano confini ben definiti, sistemi di sorveglianza delle regole e sistemi di risoluzione dei conflitti non troppo costosi e complicati.
Il libro è senza dubbio interessante, ma la sua lettura non è certo agevole in quanto si tratta di definire nel dettaglio le situazioni analizzate e la storia delle evoluzioni delle regole e delle situazioni, quindi è una lettura che va fatta un po' alla volta, anche io ho impiegato parecchio tempo per finirlo ma vale  la pena leggerlo.