mercoledì 14 dicembre 2016

Thomas Fazi, Guido Iodice –La battaglia contro l’Europa- Fazi Editore



Questo libro è scritto da due giornalisti e saggisti, divulgatori di economia, di cui Iodice animatore del blog Keynesblog.


Il libro ripercorre nella prima parte le vicende politico-economiche di questi ultimi decenni dell’area euro, con molteplici riferimenti e richiami agli aspetti decisivi di questo lungo periodo di  crisi: dalla crisi bancaria, alle fallimentari politiche di austerità e al fiscal compact. 

Nella seconda parte analizzano le soluzioni proposte per uscire dal pantano in cui si è arenata l’Europa. In particolare criticano la ipotesi di uscita dall’euro: quella unilaterale troppo pericolosa e destabilizzante, e anche quella di un uscita concordata in quanto richiederebbe un forte coordinamento tra gli Stati europei la cui mancanza è invece una delle cause della crisi dell’area euro. Non sono altresì favorevoli alla maggiore integrazione (“più Europa”) perché rischierebbe di desertificare ulteriormente le nazioni più deboli dell’euro.

Secondo gli autori, la via d’uscita dalla crisi quindi non passa né per una maggiore integrazione né per l’uscita dall’euro, quanto piuttosto per l’apertura di un conflitto tra periferia e centro sulle attuali politiche e limiti imposti dalla troika e che arrivi quindi a delineare un’ alternativa all’attuale assetto istituzionale dell’unione monetaria. Per gli autori l’alternativa migliore rimane restare nell’euro e combattere politicamente per una maggiore flessibilità a livello nazionale. 

Il libro è ben scritto anche se richiede un minimo di conoscenza economica, la prima parte comunque è relativamente interessante ma non innovativa, in quanto molte delle analisi le trovate in molti dei libri che vi ho già segnalato. 

Sulle soluzioni proposte, molto pragmatiche ma neanche innovative, nutro forti dubbi che siano attuabili, visto anche la situazione politica che si va delineando, con la forte protesta e insofferenza nei cittadini di molti paesi manifestate alle elezioni e referendum. Concordo invece (e direi ormai purtroppo) con molti economisti (ad es Stiglitz) che, appunto visto lo stato in cui versa l’area euro, sono convinti dell’inevitabilità della fine di questa unione monetaria.

martedì 6 dicembre 2016

Commento sul referendum costituzionale

Non posso esimermi dal commentare l’esito dei referendum. Anche qui il risultato è stato in parte sorprendente, infatti pensavo che ci sarebbero stati maggiori consensi per il SI a causa della ragionevole paura di una caduta del governo, dall’altra nel fronte del No c’era una larga maggioranza dei partiti e sicuramente la pancia dell’elettorato.
Io ho votato NO per i contenuti, pur sapendo che c’era un aspetto fortemente politico, sinceramente vista la situazione sarebbe stato meglio evitare tutto ciò. Quelli del SI, invece di criticare gli altri, dovrebbero però ammettere che gli errori sono tutti di Renzi. 
Primo non c’era necessità di varare la riforma costituzionale, ci sono moltissimi altri aspetti che sono più urgenti, secondo la riforma poteva essere fatta meglio e con maggior coinvolgimento, terzo non si doveva porla sul piano personale soprattutto dopo tre anni di governo; insomma come Cameron con Brexit ha preso un rischio e ha sbagliato conducendo il paese nella confusione, non mi sembra un gran risultato. 
Se poi vediamo i risultati del suo governo sono piuttosto deludenti, l’aumento del PIL è minimo e bisognerebbe capire quanto dovuto ai fenomeni internazionali (ripresa degli altri paesi, QE di Draghi e calo del petrolio) e quanto di suo. La riforma del lavoro in proporzione a quanto speso ha ottenuto ben poco, d’altra parte se da un lato è giusto rendere più flessibile il lavoro non è con lo svilimento dei diritti che si aumenta la occupazione, al massimo si può ridurre la disoccupazione frizionale e non quella strutturale. Sul piano internazionale con l’Europa è stato debole, gli aspetti internazionali e dell’area euro sono fondamentali in questo periodo e si è accorto con molto ritardo, con le sue prese di posizione elettoralistiche, che questa Europa non va e vanno cambiate molte cose e si doveva spendere molto di più su questo fronte, non solo sugli immigrati ma per promuovere una vera politica di investimenti europei. 
Non sono comunque contento perché purtroppo non ci sono grandi alternative, nel PD non vedo altri grandi leader, nella destra ancor meno tra il bollito di Berlusconi e la inconsistenza di Salvini. Il Movimento 5 stelle non ho capito che programma abbia e la sua leadership è piuttosto deludente, basta guardare i contenuti dei profili di Di Maio e DiBattista per vedere che non hanno alle spalle un grande curriculum. Per guidare un grande paese in una situazione economica e internazionale complessa ci vuole molto di più dell’onestà, ci vogliono competenze economiche e storiche che Grillo farebbe bene a far crescere nei suoi adepti, anche perché ci basta già Salvini con gli slogan. 
Io ribadisco il punto che la democrazia è una scelta di leadership, la democrazia diretta è una “stupidaggine”, quindi quello che abbiamo bisogno è di buone leadership; Renzi è bravo dal punto di vista comunicazionale e decisionale, ma politicamente e culturalmente anche lui ha molta strada da fare e, soprattutto, dovrebbe avere l’umiltà di circondarsi di persone di spessore che fortunatamente ancora in giro ci sono.  
Insomma siamo nel caos e ormai sono vari decenni che non abbiamo più una classe dirigente: politica, giornalistica, imprenditoriale, ecc., decente.

mercoledì 23 novembre 2016

K. Polanyi - La grande trasformazione

Oggi parliamo di un libro non certamente nuovo, infatti la prima edizione è uscita nel 1944, quindi non recentissimo, ma tale libro contiene alcune riflessioni che sono comunque attuali e vale la pena di essere letto, anche se non è di facile reperimento in lingua italiana, mentre lo trovate facilmente anche in rete in lingua inglese.
Diciamo subito che è un libro complesso pieno di argomenti e argomentazioni, una sua sintesi è quindi da escludere al massimo cercherò di esporre alcune sue idee. 
E’ un libro complesso abbiamo detto, è infatti in parte storico, sociologico, economico e politico, ovvero ricostruisce la storia della evoluzione (la grande trasformazione) della società occidentale evidenziando la interrelazione profonda tra i piani economici, politici e sociali.
Si parte da una visione del periodo che va dal 1815 alla prima guerra mondiale, un periodo di sostanziale pace (la pace dei cent'anni) tra le grandi potenze con solo  qualche guerra a carattere locale.
Quali erano le forze che hanno determinato tale situazione di pace? Per Polanyi sono quattro: l’equilibrio del potere delle grandi potenze, la base aurea, il mercato autoregolato e lo stato liberale. Di questi elementi quello fondamentale era il mercato autoregolato, la cui idea per l’autore è che sia puramente utopica perché la sua istituzione porta come conseguenza alla distruzione della società, per questo la società stessa genera delle forze che cercano di contrastare il mercato
Tornando al periodo di pace questo terminò quando i contrasti tra le grandi potenze per il dominio coloniale superarono la capacità, soprattutto della alta finanza, di contrastare le rivalità tra i paesi. Il periodo successivo tra le due guerre sancì la fine del sistema aureo, infatti i tentativi di mantenerlo in piedi costringevano i paesi alla deflazione che a sua volta generava problemi di produzione e quindi povertà e ulteriore chiusure al commercio. Ma il problema maggiore per Polanyi resta l’idea del mercato autoregolato, il cui sviluppo fu favorito storicamente dallo Stato, ma liberare i mercati metteva in pericolo la organizzazione sociale, di fatto mentre il sistema economico, precedentemente, era assorbito dal sistema sociale, si arrivò a separare politica ed economia con la mercificazione progressiva del lavoro e della terra (terra e lavoro sono per Polanyi merci fittizie). Interessante è anche la parte in cui espone le differenze tra la moneta-merce ("vitale per l'esistenza del commercio estero") e la moneta-segno che "si diffuse per proteggere il commercio dalle deflazioni forzate". La moneta merce sarebbe, quindi, incompatibile con la produzione industriale e con la disgregazione della base aurea cessò quindi di esistere. Polanyi aggiunge, inoltre, che "il crollo della base aurea rappresentò anche il fallimento definitivo dell'economia di mercato". La sua diagnosi della crisi politica che ha condotto alle guerre mondiali è :

"La tensione sorgeva dal mercato di lì passava alla sfera politica e quindi a tutta la società. Quando la base aurea cadde la tensione all'interno delle nazioni si liberò".
Quali sono le lezioni ancora valide di Polanyi? 
Primo che il mercato autoregolato è una pericolosa illusione, infatti, se il secondo dopoguerra è stato anche caratterizzato da una certa stabilità e prosperità lo dobbiamo alle politiche keynesiane del dopoguerra e dall'intervento dello Stato come regolatore e moderatore dell'economia. Quando la furia iperliberista dagli anni '70 ha cominciato a propagandare l'idea che lo Stato è male e sarebbe meglio ridurlo al minimo le crisi economiche e sociali sono aumentate. 
Secondo, l'idea che la moneta non sia neutrale, come succede per l'euro che di fatto rappresenta il gold standard europeo e infatti costringe i paesi deboli del sud alla deflazione e svalutazione del lavoro.
Inoltre, l'idea che il mercato autoregolato costringa la società a trovare soluzioni per evitare le conseguenze negative che questo comporta, cosa che vediamo con l'avanzata del cosiddetto populismo, che non è altro che una normale reazione della società a forze che tendono a distruggerla.
Concludo con un suo monito alle classi dirigenti :
"Nessuna classe che difenda rozzamente soltanto i suoi interessi può mantenersi al potere."

sabato 12 novembre 2016

elezioni americane

Sulle elezioni americane e la vittoria di Trump ormai hanno scritto tutti e di tutto, ammetto che pur avendo molti dubbi su Hillary Clinton non pensavo che alla fine Trump vincesse. Ora sulle ragioni che hanno determinato la vittoria ce ne sono sicuramente molte: voglia di cambiamento, delusione verso il cambiamento promesso da Obama e quanto realizzato o percepito, insoddisfazione per a situazione attuale, ecc. 
E’ indubbio che le risposte del cosiddetto establishment alle criticità attuali sono state in parte deludenti. Rispetto alle colpe a ai disastri causati da Wall Street pochi hanno pagato e poco è cambiato e la Clinton non rappresentava un deciso cambiamento in questo senso; che la classe media americana stia peggio di prima è indubbio e parimenti stia sparendo quella classe operaia che ne faceva parte o era contigua. E’ inutile continuare a barare sulla globalizzazione, la verità ammessa dalla teoria economica è che può essere un vantaggio nel complesso ma per molti significa un passo indietro, e all’elettore americano se sta  meglio l’operaio cinese poco interessa se a pagare è lui. Delle straordinarie potenzialità della tecnologia ancor meno se significa essere cacciato dal posto di lavoro. I problemi di una società in termini economici in realtà si possono ricondurre a pochi aspetti: la domanda e l’offerta e la distribuzione del prodotto nazionale. Aumentare l’offerta è il primo passo per far partire il meccanismo di crescita che porta ad ulteriore aumento di produzione e di offerta. Come diceva Marshall domanda e offerta sono le due lame di una forbice che quindi funziona se ci sono entrambe. Quindi un economia funziona bene se all’aumentare della offerta aumenta la domanda e questo succede se la distribuzione del prodotto avviene in maniera tanto più equilibrata tra i fattori produttivi. Tale equilibrio non è naturale ma dipende da i rapporti di forza, se il lavoro perde forza perché il capitale può far ricorso al lavoro esterno a più basso costo c’è poco da fare, il fattore produttivo lavoro, soprattutto poco qualificato, perde potere contrattuale e valore di mercato, se poi aggiungiamo la possibilità di sostituire lavoro con macchine è chiaro che la situazione non può che peggiorare. Ora queste dinamiche dovrebbero essere chiare a chi si pone il compito di fare da leader di un Paese. La evoluzione tecnologica e della società porta a dei grossi  sconvolgimenti (vedi Polanyi), la rivoluzione industriale in Inghilterra non è stata una passeggiata di salute per chi l’ha subita, ma siamo nel XXI secolo e mi aspetterei  che adesso sappiamo di più nella comprensione dei fenomeni. E’ evidente che la situazione sia difficile ma gestibile se le 3 forze in campo sono forti ed equilibrate: Stato, Democrazia e Mercato. Il problema è che per quanto lo Stato, le sue istituzioni e meccanismi siano migliorati rispetto a qualche secolo fa, le forze economiche sono sempre più transnazionali e tendono a eludere i loro doveri nazionali; la democrazia è anche schiacciata, le forze di mercato hanno cercato sempre più di imporre le proprie regole tramite l’attività di lobbying e a pagare il conto sono sempre le classi medio e basse, infatti la ricchezza si sta concentrando sempre di più. Quindi mi pare anche giusto che il "popolo" dei paesi sviluppati (ovvero l’elemento centrale della democrazia) voglia contare di più e rompere gli equilibri attuali che lo stanno mettendo sempre di più ai margini delle decisioni e della ricchezza. Il problema è quindi dove cercare la soluzione a questi problemi che a mio parere viene indirizzata in maniera sbagliata, d’altra parte se le classi dirigenti, in senso lato politiche ed economiche, non sono in grado di capire cosa sta succedendo e danno risposte parziali o addirittura sbagliate, come sta avvenendo in Europa, non deve sorprendere la crescita dei populismi di vario genere. I fallimenti o i successi delle leadership sono quello che definiscono il corso della storia e degli avvenimenti, il fallimento delle leadership europee dagli inizi del ‘900 hanno portato in Europa a due guerre mondiali e negli Stati Uniti a due recessioni micidiali di cui la seconda, quella recente, almeno attutita dalle conoscenze accumulate. Non credo che Trump sia la soluzione,
se infatti pensa di risolvere i problemi con minori tasse per i ricchi, basta guardare il grafico per capire come il cosiddetto trickle-down non abbia funzionato, anzi la concentrazione di ricchezza è la causa anche dei problemi dell'economia americana e non solo. Ha promesso maggiori investimenti in lavori pubblici e questo è senza dubbio positivo, in realtà cosa fanno i presidenti americani una volta eletti è difficile dire spero tanto di sbagliarmi su Trump. Il problema di fondo resta: dove sono le leadership (politiche ed economiche) illuminate in grado di contrastare una deriva innescata principalmente dalla insipienza delle leadership degli ultimi tempi? 

giovedì 20 ottobre 2016

Simon Wren Lewis - Una teoria generale dell’austerità

Oggi presentiamo un bel articolo di Simon Wren-Lewis, della University of Oxford, l’articolo  originale lo trovate qui, di seguito la mia sintesi.
La questione centrale dell’articolo è se l’austerità, come si dimostra, non era necessaria perché è stata attuata?
Inizialmente chiarisce la differenza tra i due termini: consolidamento fiscale e austerità, il primo si riferisce ad un pacchetto di misure atto a ridurre la spesa e alzare le tasse, mentre l’austerità è quando il consolidamento fiscale porta ad un elevata disoccupazione involontaria.
Ricorda che l’azione della banca centrale quando procede al taglio dei tassi di interesse è per incoraggiare la spesa e ridurre il risparmio. Attraverso il quantitative easing, inoltre, cerca di influenzare anche i tassi a lungo termine, strumento non sempre efficiente soprattutto a tassi molto bassi (zero lower bound), per tali motivi diviene necessario anche lo stimolo fiscale, come avvenuto negli USA.
L’austerità per l’autore poteva essere quindi evitata per l’eurozona ritardando il consolidamento fiscale di qualche anno, per alcuni paesi una qualche forma di austerità poteva esser necessaria ma solo per ricondurre la propria competitività a quella degli altri paesi e, in ogni caso, diluita nel tempo. Quello che conta è infatti il tasso di cambio reale piuttosto che il tasso di interesse reale per aumentare la competitività.
Inoltre, la teoria secondo cui i mercati non avrebbero concesso questo tempo per l’autore non regge, in particolare perché nelle recessioni aumenta il risparmio e quindi c’è necessita di titoli sicuri come i titoli di stato.
Il problema è che i paesi dell’euro non hanno più una banca centrale che può stampare denaro per evitare il default e quindi ridurre i rischi, e la BCE non era inizialmente pronta a fare da prestatore di ultima istanza, cosa che è avvenuta solo più tardi con l’OMT.
Ma allora qual è il vero motivo dell’austerità in Europa? La Germania con un tasso di incremento dei salari più basso ha guadagnato competitività, quindi la opposizione a politiche monetarie non convenzionali è nell’interesse della Germania. Ma se la Germania ha poco interesse alle politiche keynesiane perché gli altri si sono allineati a questa politica, visti i danni dell’austerità e l’ammissione degli errori di valutazione anche da parte del FMI?
Il problema è sostanzialmente ideologico, la idea di una banca centrale indipendente e quella che la politica monetaria sia più efficiente della politica fiscale nello stabilizzare la situazione macroeconomica hanno contribuito a ridurre i costi del consolidamento fiscale agli occhi dei politici e dei media. La “truffa del deficit” propagandata dalla destra politica consiste appunto nello spingere le masse a preoccuparsi del debito insieme al timore dei mercati finanziari, mentre vengono ignorati gli effetti pericolosi del consolidamento fiscale nella trappola della liquidità, di fatto ciò ha segnato la crescita del potere della ideologia neo-liberale.

Ma non c’è niente di logico nella “teoria dell’austerità”, è solo un abile opportunismo della destra nello sfruttare le paure popolari sulla crescita del debito pubblico per raggiungere il fine che è la riduzione del ruolo dello  stato.
Tale opportunismo e la sua vittoria riflette un fallimento dell’economia, questo fallimento è anche dovuto al fatto che è stato sempre più delegato alle banche centrali indipendenti il compito della stabilizzazione macroeconomica, e che tali istituzioni si sono poco preoccupate dei costi di un prematuro consolidamento fiscale anzi lo hanno talvolta incoraggiato.

sabato 15 ottobre 2016

J.Stiglitz - La grande frattura- Einaudi

Il libro che recensiamo è del premio Nobel per l’economia J. Stiglitz, autore di molti saggi di successo.
Il tema del libro è la diseguaglianza, “la frattura”, tra i ricchi e i poveri. In particolare l’autore nel libro mostra come, negli ultimi tempi e anche dopo la crisi, il divario di ricchezza tra quelli in cima alla piramide  e gli altri si stia divaricando sempre di più; questo non è avvenuto per cause naturali ma anche a causa delle politiche liberiste degli ultimi anni che hanno creato un “capitalismo truccato”, politiche che, secondo l’autore, devono essere profondamente cambiate. Come conseguenza sta morendo, nei paesi occidentali avanzati ed in particolare negli Stati Uniti, la classe media che si era formata e accresciuta dal dopoguerra sino agli inizi degli anni ’80, inoltre si allarga sempre di più la platea della povertà. Questo non è solo un problema di giustizia sociale ma compromette anche il funzionamento della economia, mancando una classe che consentiva di mantenere alti i consumi, mentre la concentrazione di ricchezza alimenta le speculazioni finanziarie e le bolle.
Il problema di fondo per l’autore è che : « il capitalismo può essere il migliore sistema del mondo ma nessuno ha mai detto che avrebbe creato stabilità […] la regolamentazione e la vigilanza governative rappresentano una componente essenziale di un economia di mercato ben funzionante».

 Il libro è pieno di spunti interessanti ed essendo una raccolta di articoli è scritto per il grande pubblico, che è anche il limite di questo saggio, infatti, trattandosi di articoli, spesso i temi sono ripetuti e manca forse una visione d’insieme, anche se resta un libro che vale la pena di essere letto.

lunedì 3 ottobre 2016

Perchè voterò No al Referendum

Perchè voterò No al Referendum
  • ·  Non voterò No perché voglio  mandare a casa Renzi, sinceramente una riforma costituzionale dovrebbe avere un respiro più lungo di un governo e anche di una legislatura, d’altra parte chi ha sbagliato (come ora ammette) per aver impostato la questione come una ordalia, un pò ricattatoria, agli elettori è stato Renzi;
  • ·  Non voterò No perché abbiamo la costituzione più bella del mondo (pura retorica), anzi credo che andrebbe migliorata in alcuni aspetti;
  • · Non voterò No perché vorrei una riforma perfetta o sono un conservatore, vorrei una riforma almeno decente che migliori l’attuale senza peggiorarla.

Qual è dunque il metro di giudizio su questa riforma, semplicemente se è conforme al principio base di ogni stato di diritto, ovvero l’equilibrio dei poteri e il rispetto delle minoranze.
Questa riforma, insieme alla pessima legge elettorale, infatti rischia di dare un potere eccessivo ad una sola camera e al Presidente del Consiglio, inoltre il meccanismo elettorale rischia di dare enorme potere non a una maggioranza ma a una minoranza.
Il Senato non elettivo rappresenta poco le minoranze e i suoi compiti sono abbastanza confusi e poco chiari, personalmente avrei preferito un Senato eletto con una legge elettorale diversa  da quella della Camera (più proporzionale lasciando alla Camera un sistema con di premio di maggioranza ridotto rispetto all’Italicum), che potrebbe non votare la fiducia ma avesse delle prerogative più chiare in termini di rappresentanza delle minoranze, pur superando il bicameralismo perfetto.
Insomma non ci voleva moltissimo per articolare una riforma che, pur superando le attuali difficoltà, potesse avere una architettura che fosse accettabile alla maggioranza dei partiti e dei cittadini, non è sufficiente accusare di immobilismo per far passare una riforma che nella sostanza peggiora la attuale con tutti i suoi limiti.
Il discorso che basta cambiare la legge elettorale non mi convince, primo perché ci è stata sbandierata come una delle   migliori  al mondo e adesso ci si dice che potrebbe essere cambiata, si ma come e quando? Se poi passasse il Si ho seri dubbi che possa essere cambiata veramente.

Agli amici del PD che sono favorevoli alla riforma vorrei che pensassero cosa poteva essere il nostro paese con Berlusconi al governo con una tale riforma costituzionale, io francamente visto il populismo imperante nel nostro paese non mi sento tanto rassicurato da tale riforma, ricordiamoci che la nostra è una Repubblica in cui il potere spetta al popolo nei limiti dettati dalla Costituzione, ma se questi limiti sono molto bassi la deriva autoritaria o l’abuso di potere di una minoranza sono un rischio concreto. 
Per concludere una citazione di Popper:
«Abbiamo bisogno non tanto di uomini validi quanto di buone istituzioni. Anche l’uomo migliore può essere corrotto dal potere, le istituzioni, che permettono ai governati di esercitare un certo controllo efficace sui governanti, costringeranno quelli cattivi a fare ciò che i governati giudicano nel loro interesse. Per questo è tanto importante elaborare istituzioni che impediscano anche ai cattivi governanti di provocare danni eccessiv

giovedì 29 settembre 2016

Keynes, Schumpeter, Roegen

Oggi vorrei parlare di tre tra i i più grandi economisti del 20° secolo, due sicuramente noti il terzo purtroppo, a torto, meno noto. Di Keynes se ne parla troppo, spesso a sproposito. Keynes è in parte un grande innovatore, diciamo che ha creato la macroeconomia, ma le sue idee vengono da lontano. Riprende sostanzialmente l'idea della domanda effettiva di Malthus che polemizzava con Ricardo. Per Malthus si doveva prevedere una classe di persone, che pur non producendo, erano utili a creare con il loro reddito una domanda aggiuntiva per assicurare lo sbocco della offerta, contrariamente a Smith che non vedeva bene il lavoro improduttivo e a Say secondo cui l'offerta crea la domanda. Ricardo a dir il vero, per non parlare di Marx, si poneva anche il problema della meccanizzazione ovvero della evoluzione tecnologica che consente di risparmiare lavoro che  così facendo deprime la domanda. Diciamo che per tutto l'800 il problema rimane un poco sotto traccia, anche se si sono verificate crisi economiche. La grande crisi del '29 pone però in maniera drammatica il problema della disoccupazione e della crisi. Keynes rispolvera la critica a Say aggiungendo il problema monetario, ovvero che un economia moderna è anche una economia monetaria e finanziaria, se la situazione è di crisi la moneta tende ad essere tesaurizzata (trappola della liquidità) e gli investimenti privati scareseggiano, ergo l'unica soluzione è aumentare la spesa pubblica e possibilmente la distribuzione del reddito per rivitalizzare l'economia e mettere in moto il circolo virtuoso (meccanismo del moltiplicatore). Keynes viene accusato di essere troppo attento al breve periodo ( "sul lungo periodo siamo tutti morti" diceva). Schumpeter cambia prospettiva analizza il periodo lungo: teoria dei cicli; per lui l'elemento fondamentale della crescita è  la evoluzione tecnologica messa a frutto da audaci imprenditori. Anche Schumpeter mette in rilievo l'importanza della finanza e del credito per alimentare gli imprenditori innovatori. Le idee di Schumpeter le troviamo nelle teorie della crescita e sviluppo del dopoguerra (sintesi neoclassica), in particolare Solow, che conferma la importanza della innovazione tecnologica come motore di crescita. 
Tutto bene? Mica tanto, fintanto che la crescita tecnologica viene moderata, nel breve termine, da politiche keynesiane di redistribuzione del reddito, con tassazione progressiva, va tutto bene, ma quando le imprese assumono valenza sempre più extra nazionale crescono i profitti (sempre più sfuggenti al dominio dello Stato nazionale) e diminuiscono i redditi da lavoro (almeno nei paesi sviluppati). Al momento qualcosa ci guadagnano i paesi poveri, dove vengono esportate le lavorazioni, ma quando la tecnologia renderà non più conveniente produrre anche ai prezzi stracciati dei paesi poveri chi avrà il reddito per consumare la produzione? Quindi la intuizione di Schumpeter sulla innovazione teconolgica è importante, ma resta il problema della domanda e quindi della distribuzione del reddito, questa non è semplicemente una questione di legge di mercato, come sostengono i neoclassici, ma una questione di rapporti di forza tra classi (Marx). 
L'unica differenza è che oggi nessuno, dopo la fine della URSS e la transizione della Cina, crede più che il modello di pianificazione centralizzata possa funzionare nel lungo termine, per cui l'unica alterenativa ragionevole ad una concentrazione di ricchezza, che conduce alla stagnazione e alla rivolta sociale, ritorna ad essere la scelta keynesiana, ovviamente in salsa moderna e soprattutto evitando alcune storture. Per Keynes, infatti, il problema non era il capitalismo in se ne tanto meno gli "animal spirits", piuttosto i "rentiers" e la accumulazione sfrenata di ricchezza, ed inoltre una finanza incontrollata che produce bolle che si sgonfiano (Minsky). A tutto ciò aggiungiamo un altro tassello che riguarda il lunghissimo periodo: la crescita infinita in un mondo finito è un assurdità logica e termodinamica come diceva Roegen, la tecnologia ci può aiutare ma non può fare miracoli di fronte ad un uso  sconsiderato di risorse, a meno di non pensare di trovare qualche altra Terra da sfruttare nello spazio. Insomma la tecnologia non risolve tutti i problemi e il capitalismo lasciato a se stesso rischia di generare concentrazioni di ricchezza e dilapidazione di risorse, quindi serve anche intelligenza politica e istituzionale; purtroppo non possiamo fare a meno di governare i processi, con buona pace di quelli che sbandierano la capacità del mercato di autoregolarsi, vedi solo ultima crisi del 2008. 
Il futuro è aperto, spetta a noi cittadini di riprendere in mano la situazione e riappropriarci della nostra vita e della democrazia, che costantemente ci viene scippata dalle forze economiche, democrazia che significa scelta ponderata delle élite e soprattutto il loro controllo, che presuppone conoscenza e coscienza dei meccanismi economici, e inoltre impegno costante. 
Non esistono demiurghi che possano risolvere tutti i problemi, ma almeno cerchiamoci menti non del tutto impreparate (Trump) a guidarci, forse se ci guardiamo intorno ci saranno sempre nuovi Keynes (ma anche Schumpeter e Roegen) a indicarci la strada. 

venerdì 23 settembre 2016

Francesco Sylos Labini - Rischio e previsione – Laterza

Il libro che recensiamo oggi  è scritto da un fisico, figlio del noto economista Paolo Sylos Labini. Nella prima parte ci spiega come funziona la scienza e le sue regole nonché la divisione tra le previsioni prettamente scientifiche, fatte all’interno di una teoria scientifica, che sono indipendenti dal tempo e che devono essere verificate per poter corroborare la teoria stessa, e le previsioni  del tipo “meteorologico” ovvero previsioni mirate a fenomeni posti nel tempo futuro e quindi orientate a far prendere decisioni. Queste ultime previsioni, come quelle delle scienze sociali, sono profondamente diverse metodologicamente e sostanzialmente dalle prime, infatti non sono sempre  guidate da un solido modello teorico e pertanto dovrebbero essere accompagnate da una stima del grado di incertezza. Nella seconda parte critica la scienza economica e certe sue deviazioni, in questa parte non ci sono comunque argomenti nuovi che non siano affrontati anche nei libri che ho già recensito e, in particolare, molte argomentazioni sono molto più approfondite in questo. Nell’ultima parte si dedica alla ricerca scientifica e alla critica sui sistemi di valutazione e anche di finanziamento dei progetti scientifici. Complessivamente è un libro scritto bene ma manca di spunti originali, inoltre non si capisce bene lo scopo e finalità del libro e gli argomenti appaiono non del tutto correlati, insomma sinceramente mi aspettavo qualcosa di più.

mercoledì 21 settembre 2016

La moneta

Oggi pubblico un estratto dal mio  libro di prossima pubblicazione.
Una definizione breve di moneta  potrebbe essere la seguente: «la moneta è ciò che usiamo per pagare le cose»[1]; ma  la  sua definizione più completa coincide con l’elenco delle sue funzioni che sono:
  •  strumento di pagamento, quindi mezzo di scambio e intermediario  nella compravendita di beni e servizi;
  • unità di conto, dunque  misura del valore;
  • riserva di valore, in altri termini un modo come mantenere la ricchezza.
Come è noto inizialmente gli scambi, in tempi remoti, avvenivano attraverso il baratto, questa modalità era palesemente poco efficiente e, quindi, ben presto venne la necessità di regolare gli scambi attraverso qualcosa che, successivamente, prese il nome di moneta[2].
Inizialmente come moneta furono utilizzate le cose più disparate: pietre, conchiglie, sale, capi di bestiame, tabacco, ecc.
Successivamente si diffuse l’uso dei metalli, le monete più antiche sino ad ora ritrovate risalgono a  fra la seconda metà del VII e gli inizi del VI sec. a.c., per la caratteristica principalmente di non essere deperibili.
Il passaggio ai metalli preziosi, oro e argento principalmente, segna l’inizio di quella che viene definita moneta merce, ovvero dotata di un valore intrinseco.
Anche l’utilizzo delle monete in metallo prezioso presenta alcuni problemi, alcuni pratici cioè legati al peso di grosse quantità di moneta e inoltre al rischio nel loro trasferimento, questo porta alla nascita delle banconote e anche di altri strumenti sostitutivi (ad esempio lettere di cambio).
Un altro aspetto legato alle monete in metalli preziosi e quello della disponibilità, abbondanza o scarsezza dei metalli in funzione, ad esempio, della scoperta di nuove miniere o all’esaurimento di quelle vecchie. L’eccesso di moneta se non accompagnato da uno sviluppo economico può infatti portare, come avevano capito anche i primi economisti, a spinte inflazionistiche (aumento dei prezzi); al contrario una mancanza di mezzi monetari può frenare lo sviluppo economico e portare viceversa a deflazione.
Con la comparsa delle banconote nasce in seguito la necessità che tale attività sia regolata, e che ci sia un legame tra la emissione di banconote e presenza di adeguate riserve d’oro. Quindi la attività di emissione della banconote passa nel tempo dalle banche private ad una banca centrale, che diventa l’unica ad emettere banconote e tenuta ad avere una determinata quantità di riserve auree a copertura delle emissione di banconote.
Il sistema monetario divenne quindi il cosiddetto Gold Standard[3], nel quale il valore della moneta corrispondeva ad una determinata quantità di oro stabilita dalle autorità monetarie, senza necessità di una totale convertibilità tra banconote e riserve auree, dando così la possibilità di maggiore flessibilità monetaria all’interno, mentre rimane lo scambio di riserve per regolare le transazioni tra paesi.
Il  passaggio dalla moneta metallica, con valore intrinseco, alle banconote a corso legale garantite dallo Stato segna la evoluzione dalla moneta merce alla moneta segno, cioè ad una moneta fiduciaria basata sulla fiducia nell'emittente[4].
Il secondo dopoguerra si caratterizza, con gli accordi di Bretton-Woods, per la nascita del cosiddetto Gold Exchange Standard, in cui la moneta per gli scambi internazionali rimane il dollaro che è l’unico a poter essere convertito in oro.
Quindi il dollaro diviene il punto centrale ma anche dolente di tutto il sistema e la sua presunta convertibilità in oro termina, con decisione di R.Nixon nel 1971, lasciandoci in un sistema non ben definito.
Abbiamo parlato nel corso del libro dei concetti di moneta endogena o esogena, cioè se la offerta di moneta è creata e controllata solo dalla banca centrale o, se invece, non è creata anche dal sistema bancario e finanziario per esigenze della economia. Considerando che le banche private possono emettere prestiti o dare credito sulla base anche delle riserve dei depositi, ma che non sono vincolate a prestarli in rapporto 1 a 1 con i depositi (moltiplicatore dei depositi), è chiaro che anche loro sono in grado di generare moneta. Per i sostenitori della teoria della moneta endogena in realtà sono proprio i prestiti a creare la moneta e le banche, nel loro insieme, non sono quindi vincolate nel concedere prestiti dall’ammontare del denaro precedentemente depositato; pertanto la  banca centrale non è in grado di controllare direttamente la quantità di moneta, può solo fissare il tasso d’interesse al quale rifinanzia le banche ed è  tale tasso d’interesse che influisce “indirettamente” sulla offerta di moneta.
In pratica la moneta è oggi una forma di debito, un debito di tipo speciale che è accettato come mezzo di pagamento nella economia[5].
In particolare la cosiddetta massa monetaria (o moneta legale) viene suddivisa in alcune componenti, detti aggregati monetari. Questi aggregati sono in ordine decrescente di liquidità :  
  • M0 insieme di  tutte le banconote e le monete, dette moneta legale, e le riserve obbligatorie delle banche presso la banca centrale che costituiscono la cosiddetta base monetaria;
  • M1 che comprende oltra alle banconote circolanti anche i depositi di conto corrente e postali (trasferibili con assegno);
  • M2 che oltre a ricomprendere quanto detto per M1 comprende anche i depositi di conto corrente e postali più vincolati dei precedenti;
  • ·M3 che comprende ulteriormente altri titoli a breve come le obbligazioni e i titoli di stato a breve termine.

Abbiamo parlato spesso di offerta e domanda di moneta, la prima si definisce come la moneta circolante in un sistema economico, mentre la domanda di moneta è quella che i privati (cittadini e aziende) vogliono detenere per vari motivi: speculazione, transazioni e precauzione.
Infine concludiamo con le politiche monetarie: lo scopo delle politiche monetarie è di  controllare la quantità  di moneta in generale, questo avviene da parte della autorità monetaria di un paese attraverso, principalmente, le cosiddette operazioni di mercato aperto, cioè la vendita o acquisto da parte della banca centrale di titoli. Acquistando titoli, titoli di Stato, per la maggior parte, la banca centrale ottiene due effetti: da una parte riduce la quantità di moneta in circolazione; dall’altra, acquistando titoli, ne aumenta il valore (aumento della domanda) e per la relazione inversa tra valore dei titoli e interesse fa quindi diminuire  il tasso di interesse. Quando queste operazioni avvengono su larga scala e i titoli interessati sono anche altri titoli, come ad esempio obbligazioni private emesse dalle aziende, queste operazioni prendono il nome di quantitative easing.
Un altro campo di azione  della banca centrale è quello di modificare, in rialzo o in ribasso,  il valore  del tasso ufficiale di sconto, che determina i tassi di interesse applicati dalle banche per i prestiti.
Infine, un altro modo per controllare la emissione di moneta è attraverso il sistema di regolamentazione delle banche, ad esempio agendo sulla cosiddetta  riserva frazionaria, che è la percentuale dei depositi bancari che per legge la banca è tenuta a detenere, sotto forma di contanti o di attività facilmente liquidabili. Tale riserva determina quanto un istituto di credito  può erogare per i prestiti e, quindi, un aumento o una sua diminuzione possono variare l’offerta di credito e l’offerta di moneta.
La teoria economica ci dice, in generale, che la banca centrale dovrebbe stabilire la politica monetaria, espansiva o recessiva, in funzione dello stato dell’economia. Ad esempio in una fase di recessione dovrebbe aumentare la quantità di moneta è ridurre il tasso di sconto per favorire la ripresa, mentre in una fase espansiva dovrebbe fare il contrario per frenare il possibile rischio di spirale inflazionistica. Questo vale in generale, ci sono comunque molte divergenze sulle modalità e sulla importanza di tali politiche che variano a seconda delle correnti di pensiero: i monetaristi propendono per un controllo stretto della politica monetaria con minori interventi dello Stato; mentre le correnti keynesiane e post-keynesiane credono che non si possa far a meno di accompagnare tali politiche con un maggior intervento statale anche sul fronte della spesa pubblica o politiche fiscali.







[1] A. Lerner, Money as a creature of the State, The American Economic Review, Vol. 37, No. 2, 1947, p. 313.
[2] Il nome pecunia viene da “pecus” (pecora), a rappresentare uno dei mezzi con cui potevano avvenire gli scambi, il nome moneta verrebbe, secondo alcune teorie,  invece dalla dea romana Giunone Moneta, dove per moneta si intende l’aggettivo di “ammonitrice” dato alla dea, in quanto la zecca sarebbe stata nei pressi o annessa al suo tempio.
[3] In realtà si distinguono tre diversi sistemi aurei: nel primo l'oro viene usato direttamente come moneta (circolazione aurea), nel secondo viene usata cartamoneta totalmente convertibile in oro, infine, nel terzo caso, le banconote sono convertibili solo parzialmente, risultando il valore della quantità di banconote emessa un multiplo del valore dell'oro posseduta dallo stato (circolazione cartacea convertibile parzialmente in oro).
[4] Tale tipo di moneta viene definita “fiat”, cioè  una moneta stabilita da la regolamentazione del governo o della legge.
[5] Vedi: M. McLeay, A. Radia, R. Thomas, Money in the modern economy: an introduction, Quarterly Bulletin 2014 Q1, Bank Of England.

venerdì 2 settembre 2016

Equilibrio dei poteri

La teoria tradizionale dello Stato moderno, originata dalle idee di Montesquiez, si basa sull’equilibrio dei poteri ovvero: potere esecutivo, legislativo e giudiziario (Nel tempo si è parlato di altri poteri, quello della carta stampata e della televisione ma in realtà sono poteri esterni allo Stato). Si tratta quindi sostanzialmente di una teoria dello Stato e del suo funzionamento. Quello su cui invece vorrei soffermarmi oggi è sui “poteri” che in genere agiscono all’interno di una nazione. Per ragione di sintesi i poteri principali che ritengo agiscano sono tre. Il primo è il potere economico (che per semplicità chiameremo di mercato) cioè il potere che deriva dalla disponibilità di grossi mezzi economici (ricchezza o proprietà di assets di vario tipo industriali, finanziari, ecc..) da parte di singoli o di gruppi economici. Il secondo è il potere dello Stato in virtù della forza che gli dà la legge e le sue istituzioni. Infine il potere del popolo, che chiameremo democrazia (appunto letteralmente governo del popolo). Su questo ultimo dobbiamo fare alcune precisazioni fuori da ogni retorica, il popolo o meglio i cittadini hanno, almeno in teoria, la possibilità di scegliere chi li governa, nei casi di governi totalitari in genere l’unico mezzo è la rivoluzione, negli Stati più evoluti ciò avviene tramite procedure elettorali e democratiche (Sulle differenze tra i vari tipi di democrazia vedi articolo di Rodrik). La legislazione, in particolare la Costituzione, regola oltre che i rapporti tra i poteri dello Stato anche le modalità con cui funziona la democrazia e viene regolato anche il potere economico, ma nei fatti i rapporti di forza tra i tre poteri: mercato, Stato e democrazia, dipendono dalle condizioni, storiche e sociali della nazione e anche dalla situazione internazionale. Quando predomina lo Stato siamo in genere in un regime totalitario, dove governano delle oligarchie politiche che sono spesso anche economiche; quando è molto forte la democrazia c’è il rischio della cosiddetta dittatura della maggioranza o di governi populisti; quando sono forti le élite economiche queste riescono a indirizzare e dominare il potere politico a loro favore riducendo di fatto il potere della democrazia. Storicamente, se vediamo in particolare mondo occidentale, hanno inizialmente prevalso le élite politico-militari, con classi sociali piuttosto definite, che hanno assunto spesso anche connotazioni religiose o si sono avvalse della religione per giustificare la loro leadership. Con lo sviluppo dei commerci e in seguito della industrializzazione hanno guadagnato un maggior ruolo le élite economiche che, in virtù della esistenza di sistemi scarsamente democratici, potevano imporre le loro condizioni sul resto della cittadinanza. Lo sviluppo economico e la industrializzazione hanno accresciuto la possibilità di azione collettiva da parte dei cittadini che, con il tempo e con le lotte, sono riusciti a conquistare spazi maggiori in politica con un espansione della democrazia. Anche se regimi totalitari o scarsamente democratici possono condurre a situazioni di un certo sviluppo economico, la realtà mostra che attualmente le nazioni più sviluppate economicamente sono quelle che hanno un certo equilibrio tra i tre poteri, cioè una democrazia forte con uno Stato efficiente e ben gestito e con un mercato sviluppato. Quindi una società funziona bene quando i tre poteri sono forti e si limitano a vicenda, evitando così il prevalere dell’uno sull’altro, perché il mercato consente, in genere, di aumentare lo sviluppo economico ma, senza uno Stato forte che lo regoli, il mercato tende a formare concentrazioni di potere e monopoli che diminuiscono le possibilità di crescita e sviluppo; d’altra parte uno Stato troppo forte potrebbe distorcere la concorrenza e favorire alcune categorie minando la concorrenza che è uno dei meccanismi di funzionamento del mercato; infine la democrazia, intesa come sistema di controllo da parte dei cittadini, dovrebbe, idealmente, consentire di redistribuire la ricchezza e i carichi fiscali a vantaggio della maggioranza dei cittadini e del benessere generale. Come abbiamo detto nel tempo, soprattutto in occidente, si è consolidato lo sviluppo di Stati democratici con economie di mercato che hanno consentito sia lo sviluppo economico e materiale e sia un miglioramento della legislazione sociale e di difesa dei diritti, ovviamente con formule diverse e con gradi di sviluppo diversi. La situazione negli ultimi anni presenta degli aspetti contrastanti, infatti alcuni paesi, ad esempio quelli dell’est europeo, si sono liberati dei vecchi regimi totalitari e si sono avviati verso un percorso democratico, anche altri paesi a varie latitudini si sono incamminati verso regimi più democratici o con maggiori libertà che in passato, con situazioni comunque che non possiamo definire democratiche (ad esempio la Cina). Nei paesi occidentali la situazione è invece più complessa e controversa, grazie alla globalizzazione è aumentata la forza delle imprese e della finanza internazionale, che potendo giocare la partita a livello internazionale possono incrementare i profitti giocando sulle differenze di costi e di regolamentazione (arbitraggi) tra i vari paesi, avendo meno limiti e condizionamenti dagli Stati e democrazie nazionali; quindi in questi paesi, mentre questi soggetti sono meno condizionati e vincolati, di fatto hanno perso potere lo Stato e la democrazia, con un incremento delle diseguaglianze, una diminuzione del welfare state e un aumento della insicurezza e della incertezza delle popolazioni. Se quindi vediamo le società occidentali in crisi economicamente e anche perché sono venuti meno i fenomeni di riequilibrio tra i poteri di cui abbiamo parlato, ed è questo il motivo di quella che qualcuno chiama stagnazione secolare ma in realtà si tratta di un arretramento del ruolo dello Stato e della democrazia che a sua volta genera una crisi economica e sociale.

martedì 30 agosto 2016

Nils Gilman - The Twin Insurgency

Oggi consigliamo l'articolo: The Twin Insurgency di Nils Gilman che è rettore associato alla California University (Berkeley), che potete trovare in lingua inglese qui, di seguito invece trovate la mia sintesi in italiano.

Gli Stati a causa  della globalizzazione devono affrontare una doppia "insurrezione", una dal basso e una dall'alto.
Dal basso la insurrezione viene da una serie di organizzazioni criminali interconnesse (cartelli della droga, trafficanti di esseri umani, trafficanti di armi, hackers, ecc...) che sfruttano le mancanze e le carenze delle istituzioni governative per costruire imperi commerciali globali.
Dall'alto la insurrezione viene da una "plutocrazia": élite globalizzate che cercano di svincolarsi dalle obbligazioni e responsabilità tradizionali e nazionali. Fanno parte di questa categoria: gli speculatori internazionali, i nuovi super ricchi, i legali dei paradisi fiscali e anche gli attivisti libertari, ecc..., che intraprendono una vasta campagna per limitare la capacità dei governi di esigere le tasse e la loro attività di regolazione o cercano di manipolare tali funzioni come mezzo a loro utile per la spietata competizione di business. 
Lo scopo di entrambi i gruppi è soprattutto ricavare delle zone di autonomia vanificando la capacità dello Stato di limitare la loro libertà (economica) di azione.

I fallimenti del modernismo sociale

Durante la cosiddetta era modernista sociale (1945-1971), gli Stati, sia capitalisti e sia comunisti, industrializzati o in via di sviluppo cercavano di legittimarsi servendo gli interessi della classe media che miravano ad espandere.
La costruzione del "welfare state" aveva lo scopo di promuovere il benessere generale, per cui  le tasse verso i ricchi non erano richieste da un ostilità di classe; il risultato anche di tali politiche fu la decrescita delle ineguaglianze, e la Guerra Fredda, rappresentando una alternativa al capitalismo, spinse le élite occidentali a un maggior impegno sociale.
A partire dagli anni '70 divenne chiaro che lo Stato modernista stava iniziando a non mantenere le promesse. Nell'occidente la inflazione e la stagnazione erodevano il consenso verso le politiche keynesiane di regolazione della domanda, mentre le economie dell'Est, oltre ad essere repressive, si mostravano economicamente inefficienti. Con la fine del Comunismo venne meno anche la concezione di sviluppo come responsabilità centrale dello Stato; molti Stati non pretesero neanche più di voler creare una società maggiormente egualitaria quanto piuttosto di massimizzare le opportunità individuali. Questa trasformazione del ruolo dello Stato, con la fine della Guerra Fredda, ha di fatto drammaticamente incrementato la precarietà nella vita delle classi medie e generato nuove forme di insicurezza. Allo stesso tempo, a livello ideologico, la crisi dello stato sociale nazionale ha minato l'abilità della classe media di organizzarsi per affrontare collettivamente le nuove minacce. 

La insurrezione della plutocrazia

La ritirata strategica dello Stato modernista sociale rappresenta l'abilitatore principale della insurrezione plutocratica. Il successo di tali élite è drammaticamente poco connesso con le fortune dei loro connazionali, come lo era nelle precedenti generazioni, inoltre la grande accumulazione di ricchezza del 21 secolo è dovuta alla alta tecnologia e ai servizi finanziari, che non prevedono l'utilizzo di masse di lavoratori. Il collasso del comunismo ha rimosso le precedenti limitazioni, con un cambiamento di come gli ultra ricchi concepiscono la loro relazione con la società, le loro personali fortune sono distinte dal successo della società nazionale nella quale risiedono. I plutocrati hanno fondato "think thanks" impegnati a creare un corpo di idee e proposte politiche con lo scopo di smantellare cosa è ancora rimasto della modernità sociale. La strategia politica associata alla insurrezione plutocratica è l'uso della austerità per affrontare gli shock economici per riscrivere i  contratti sociali sulla base di più ridotte obbligazioni sociali, con lo scopo ultimo di de collettivizzare i rischi sociali. Il prezzo che lo Stato chiede loro di pagare come tasse o peso regolatorio sorpassa i benefici che essi credono di ricevere per il fatto di vivere in tale Stato, il risultato è un disinvestimento morale e un disimpegno sociale.


La insurrezione criminale

Lo Stato ha perso la sua capacità di fornire una vita decente ai suoi cittadini, portando a un collasso nelle aspettative popolari che esso possa garantire il progresso. La debolezza degli Stati post-comunisti e post-sviluppo rappresenta un grave problema per le classi medie e ha offerto un vantaggio comparato per i commerci illeciti: imprenditori deviati hanno capito che l'arbitraggio tra le differenze morali e regolatorie che esistono nel mondo costituiscono una fantastica occasione di business  e cercano, quindi, di proteggere le loro rendite di mercato. Questi soggetti cercano di indebolire selettivamente lo Stato in modo da creare delle zone di autonomia economica e proteggere i loro traffici illeciti. L'uso della violenza porta gli imprenditori deviati in conflitto con le fonti di legittimità dello Stato trasformandoli da businessman devianti a criminali. La insurrezione criminale e quindi la forma che assume la globalizzazione deviata quando si espande e diventa consapevole della sua forza politica. D'altra parte tanto più la industria deviante cresce quanto più danni fa alla legittimità dello Stato in cui opera. Così, anche se gli insurrettori criminali non desiderano eliminare lo Stato ospite, essi favoriscono il processo catastrofico di implosione. 
Il collasso della capacità e della legittimità dello Stato sociale ha dato vita non alla utopia post-storica di un consenso universale a favore di un capitalismo liberale e democratico (Fukuyama) ma piuttosto a un mostro a due teste nella forma di una secessione plutocratica e di globalizzazione deviata. Ciò che rappresentano entrambe le insurrezioni è la sostituzione della idea liberale di una autorità uniforme e di diritti all'interno dello spazio nazionale con un insieme caledoscopico di "microsovranità" di fatto e de jure.  In queste enclavi la sorgente dell'autorità e lealtà è solamente il denaro. In sintesi mentre la globalizzazione sta minando le istituzioni politiche e le identità e lealtà  nazionali, ciò che appare sostituirsi al nazionale non è una identità politica   "globale",  che i sognatori cosmopoliti hanno a lungo agognato, quanto piuttosto il ritorno a identità locali (clan, corporation, gangs). I perdenti in tutto ciò sono le classi medie che vedono erodersi le istituzioni costruite nel corso del 20 secolo per assicurare una qualità della vita ad una larga maggioranza. Nello sbriciolarsi della basi sociali della azione collettiva le classi medie possono affrontare una scelta: accettare una progressiva perdita di sicurezza sociale e di degradazione sociale o unirsi a una delle due insurrezioni.

Alcune riflessioni sull'articolo: l'analisi della evoluzione della società e dello Stato negli ultimi decenni sostanzialmente non è nuova (vedi ad esempio i libri di Reich), anche se in questo articolo viene ben evidenziato il ruolo e la importanza della criminalità, che spesso viene trascurata. Il finale è molto pessimista, mentre Reich ad esempio sprona i cittadini a riprendersi il controllo politico del loro destino. Certo vista la storia degli ultimi decenni non è facile invertire la rotta, come al solito il primo passo è essere consapevoli di quello che sta succedendo e non farsi distrarre da bersagli creati ad hoc (ad esempio gli immigrati, il modo islamico, ecc..) e soprattutto la unione degli sforzi da parte di tutti i cittadini e degli intellettuali, mentre vedo troppe divisioni che come sempre favoriscono il controllo delle élite.



martedì 12 luglio 2016

Dani Rodrik - The political economy of liberal democracy

Oggi recensiamo un bellissimo articolo di D. Rodrik (Harvard University)  e S. Mukand (University of Warwick) sulla democrazia e quindi in linea con questo blog, che potete trovare qui in lingua inglese, se volete una esauriente sintesi la trovate di seguito. 
L' articolo inizia con una interessante definizione dei diritti, in particolare si suddividono in:

  • Diritti di proprietà, che proteggono i possessori di beni (assets) e investitori dalle espropriazioni dello Stato o altri gruppi;
  • Diritti politici, che garantiscono libere e corrette competizioni elettorali  e permettono ai vincitori di tali elezioni di determinare la politica soggetti solo alle limitazioni di altri diritti ( qualora ci siano);
  • Diritti civili, che assicurano la eguaglianza davanti alla legge, nella amministrazione della giustizia e la fornitura di altri beni pubblici come la istruzione e la salute.
Segue quindi una classificazione dei regimi politici in base a quale combinazione di questi diritti siano forniti.
Nelle dittature sono protetti solo i diritti di proprietà delle élite. I regimi liberali classici proteggono i diritti di proprietà e i diritti civili, ma non necessariamente i diritti elettorali. Le democrazie elettorali, che costituiscono la maggioranza delle democrazie attuali, proteggono i diritti di proprietà e i diritti politici, ma non i diritti civili. Le democrazie liberali proteggono tutti e tre i diritti. Ciascuno di questi diritti ha un chiaro e ben identificabile beneficiario. Dei  diritti di proprietà   beneficiano principalmente i ricchi, le élite proprietarie. Dei diritti politici beneficia la maggioranza, le masse organizzate e le forze popolari. Dei diritti civili ne hanno beneficio coloro che normalmente sono esclusi dalla spartizione di privilegi o del potere, le minoranze etniche, religiose, geografiche o ideologiche.  
Quando le élite proprietarie possono governare da sole stabiliscono un autocrazia che protegge i loro diritti di proprietà e poco altro. Ciò è stato l'esito usuale lungo l'arco della storia. La democrazia di massa, d'altra parte, richiede la comparsa di gruppi popolari organizzati che possano sfidare il potere delle élite. Nel 19° e 20° secolo i processi di industrializzazione, le guerre mondiali e la decolonizzazione hanno portato alla mobilitazione di tali gruppi. La democrazia, quando è nata, è stata tipicamente il risultato di uno scambio tra le élite e le masse mobilitate. Le élite hanno acconsentito  alle richieste  della massa affinché il diritto di voto fosse esteso (di norma) ai maschi senza limitazioni di ricchezza o proprietà. In cambio i nuovi gruppi, con diritto di voto, hanno accettato limiti nella possibilità di espropriare i proprietari.  In sintesi i diritti elettorali furono scambiati con i diritti di proprietà. La caratteristica di tale accordo politico è che esclude i maggiori beneficiari dei diritti civili, le minoranze senza proprietà, dal tavolo di trattativa. La concessione dei  diritti civili è costosa per la maggioranza e non necessaria per le élite, perciò l'accordo politico favorisce le democrazie elettorali piuttosto che le democrazie liberali. 
Ci sono alcune circostanze che possono favorire la nascita dei diritti civili:
  • non ci devono essere chiare e identificabili divisioni etiche, religiose o di altro tipo che dividano la minoranza dalla maggioranza;
  • le due divisioni che distinguono la maggioranza dalla minoranza e dalle élite alle non-élite devono essere strettamente collegate; in questo caso le élite cercheranno un  accordo  sui diritti civili e politici (vedi il caso del Sudafrica);
  • la maggioranza risulta debole o esigua e quindi cerca un accordo con la minoranza per sfidare la élite.
Quindi due divisioni giocano un ruolo cruciale, la prima è quella tra élite proprietarie e la massa;tale divisone è tipicamente economica (divisione della terra, della ricchezza ecc). La seconda, tra maggioranza e minoranza, è dovuta a differenze identitarie (etniche, religiose, ideologica  ecc... ), questo favorisce la democrazia elettorale piuttosto che quella liberale (la maggioranza può così godere di maggiori beni pubblici). Quando invece l'élite è correlata con la minoranza, le élite possono promuovere i diritti civili. Inoltre, dato che la tassazione è in genere minore in una democrazia liberale, le élite potrebbero supportarla per questo.
Nell'Occidente la transizione verso la democrazia è una conseguenza della industrializzazione e della divisione tra capitalisti e lavoratori. Nei paesi in via di sviluppo invece, spesso, la principale divisione è di tipo identitario, per questo è più difficile la evoluzione verso una democrazia liberale. 
Un regime nel quale nessuno dei diritti è protetto è sia una dittatura personale o un anarchia dove lo Stato non ha autorità. Se sono protetti i diritti di proprietà ma non ci sono diritti politici e civili, significa che il regime è una governo oligarchico (autocrazia di destra). Un regime che fornisce solo i diritti politici ma non quelli di proprietà o civili sarebbe controllato da una minoranza e potrebbe somigliare a una dittatura del proletariato marxista. 
Quando sono protetti i diritti civili e quelli di proprietà ma non quelli politici siamo in un autocrazia liberale (ad esempio Gran Bretagna a fine '800). Quando sono mancanti i diritti civili ma non quelli di proprietà o politici siamo in una democrazia elettorale o illiberale (tipica dei paesi in via di sviluppo). Infine, solo quando tutti i diritti sono protetti, siamo in una democrazia liberale. 
Mentre la democrazia ha le radici nell'antica Grecia, la sua variante moderna è emersa a causa della Rivoluzione Industriale in Gran Bretagna e dell'Europa occidentale.
Quando gli agricoltori si sono mossi verso le città, le possibilità di azioni collettive di massa sono aumentate e il lavoro organizzato è divenuto una forza politica. La spinta verso la democrazia nel 19° secolo è dovuta, essenzialmente, alla domanda di espansione dei diritti elettorali dei non proprietari. I primi liberali facevano parte delle élite proprietarie, latifondisti e ricchi, cui obiettivo primario era di prevenire che la massa esercitasse un potere arbitrario su di essi.  Il fatto che i liberali in Occidente erano in larga parte proprietari portò alla unione dei due diritti: di proprietà e civili.
In Occidente il liberalismo ha preceduto le democrazie elettorali. Dove il liberalismo ha preceduto la democrazia, la democrazia si è mostrata più resistente.  
In altre parti del mondo la politicizzazione delle masse è arrivata non con la industrializzazione ma con la decolonizzazione o con le guerre di indipendenza nazionali. 
Questo spiega le differenze tra le democrazie occidentali e le altre che non si sono formate  a causa del processo di industrializzazione e le divisioni di classe da questa generate.
Le divisioni di classe e di identità evolvono come risultato di sviluppi esogeni nell'economia e nella società come pure le strategie politiche messe in atto dai gruppi che si contendono il potere.
La democrazia liberale è quindi una strana bestia. Non sorge se non in una particolare situazione politica. Il liberalismo deve avere delle proprie "gambe" per ottenere credibilità. Le condizioni politiche generali che sono ritenute necessarie per una democrazia producono democrazie elettorali piuttosto che liberali.
Dei tre diritti, quelli di proprietà sono importanti per le élite, i diritti politici sono importanti per le masse, mentre i diritti civili proteggono le minoranze.Una democrazia liberale richiede tutti e tre i diritti mentre le democrazie elettorali producono solo i primi due.
La transizione verso la democrazia richiede la risoluzione del conflitto tra élite e masse. Divisioni aggiuntive, divisioni di identità in particolare, rendono più difficile la promozione di politiche liberali. Per questo la rarità delle democrazie liberali non è sorprendente.

martedì 28 giugno 2016

Brexit

Non posso non aggiungermi anche io ai commenti sul referendum sull'uscita dalla Unione Europea della Gran Bretagna. Ovviamente il risultato è stato insapettatato, anche se comunque se avesse vinto il "remain" con poco scarto non poteva non essere un segnale importante.  Diciamo che non mi spello le mani dalla gioia ne mi strappo i capelli dalla testa per disperazione, sinceramente se adesso i mercati si agitano dovrebbe preoccuparci meno del fatto che i cittadini sono da anni "agitati" con l'Europa. Infatti il problema è che per troppi anni sono state dimenticate le esigenze  dei cittadini per seguire scelte dettate dalle "cosiddette" élite; ora queste scelte non mi sono sembrate troppo intelligenti o dettate da superiori visioni, anzi sono state fatte scelte contrarie ad ogni logica economica oltre che sociale, tanto che poi si è dovuto ammettere che forse erano sbagliate. Nel frattempo si sono combinati disastri: dalla crisi greca, dove si è ridotto un paese già messo male alla fame e senza prospettive di crescita, ad una minore prosperità adottando politiche di austerità quando servivano politiche espansive, cose che conosce bene anche un universitario del primo anno. Insomma un errore e un orrore continuato che ha portato l'Europa al ristagno, un gran massa di persone alla povertà, alla indigenza e alla disoccupazione. Se questo è il quadro a chi dobbiamo dare la colpa? Ai populismi, naturale conseguenza o alle scelte di chi è al comando? Detto tutto ciò adesso l'Europa è in crisi, anche se le conseguenze disastrose che sono state pronosticate sono tutte balle, fra poco finita la buriana si tornerà a una quasi normalità e i mercati torneranno a valori normali. La parola crisi nel suo significato originale etimologico significa valutare/giudicare  quindi un accezione positiva, pertanto se i nostri politici europei sapessero valutare e giudicare bene potrebbe essere che la Brexit assuma un effetto tutto sommato positivo. La domanda è sarà così? Visto il livello di alcuni personaggi e alcuni commenti a caldo direi di no, mi sono sembrate reazioni stizzite piuttosto che razionali. Quindi a questo punto o si verifica un rinsavimento della politica europea oppure l'esito inevitabile è il dissolvimento dell'Unione Europea e dell'euro. Per alcuni questa è la situazione auspicabile, io continuo a sperare che invece si imbocchi un altra strada ovvero, attesi gli errori del passato, si passi ad una costruzione istituzionale dell'Europa che sia più funzionale e per questo anche più democratica e solidale. Sono convinto che il futuro è aperto, tutto può succedere anche se il recente passato ci induce da essere pessimisti. 

Franco Debenedetti - Scegliere i vincitori, salvare i perdenti - Marsilio editore

Il libro che recensiamo oggi è Scegliere i vincitori, salvare i perdenti di Franco Debenedetti, fratello del più noto Carlo. E un libro molto ricco di argomenti, forse anche troppo. In larga parte è la storia della cosiddetta “politica industriale” in Italia, soprattutto dal dopoguerra in poi, dove l’autore è stato protagonista essendo stato manager anche dell’Olivetti e poi anche senatore per alcune legislature. Questa parte è la più interessante con i retroscena, ovviamente di parte, su molte delle vicende che riguardano la industria, e non solo, di Stato. Ricostruisce quindi la storia degli interventi statali per poi descrivere il successivo periodo, quello delle privatizzazioni, con l’abbandono di molte attività da parte dello Stato. Il suo giudizio è chiaro, per lui è “insana” e “ideologica” la natura della politica industriale. Che lo Stato si sia occupato a lungo di attività non proprie, ad esempio auto e alimentare, e che gli interventi della Cassa per il Mezzogiorno siano stati in larga parte sprechi di denaro sono perfettamente d’accordo. Debenedetti non nasconde di essere “dall’altra parte del cielo” ovvero il mercato, e che la eccessiva invadenza dello Stato abbia inibito la iniziativa privata in molte occasioni, anche su questo sono perfettamente d’accordo. Quello che non condivido è la sua evidenziazione dei fallimenti dello Stato mentre sorvola sui fallimenti di mercato. Che la nostra politica industriale, soprattutto da un certo punto in poi, sia stata negativa è abbastanza evidente, mi pare anche evidente che comunque il nostro capitalismo è stato abbastanza asfittico sia per mancanza di capitali (capitalismo straccione) e sia per il blocco imposto da e per conto dei cosiddetti “salotti buoni”. Quello che non dice è che tutte le nazioni sviluppate hanno fatto e fanno “politica industriale” (intendendo in senso lato), e l’intervento dello Stato è comunque molto presente in tutte. Sicuramente ci sono modi diversi di concepire la politica industriale, ma nessuna nazione è stata completamente ferma su questo fronte. Nel libro cita l’esempio della Germania, che comunque fa una sua politica industriale, ma stranamente non cita la Francia molto interventista, che tra l’alto ha difeso strenuamente le sue imprese quando qualcuno (come il fratello Carlo) ha tentato delle incursioni oltralpe. Poi va considerato che il nostro paese è il secondo per livello industriale in Europa, possibile che questo non sia anche dovuto ad alcune iniziative dello Stato vista appunto la sua presenza? Non tutte le esperienze statali sono state infatti negative, molto è dipeso dagli uomini, ad esempio Mattei all’Eni, e anche l’IRI ha avuto alcune eccellenze (ad esempio le telecomunicazioni, dove per inciso i privati non avevano inizialmente voluto entrare). Non parliamo delle privatizzazioni, che in alcuni casi non sono state un successo, con situazioni di evidente distruzione di valore o, in alcuni casi, di regali di monopoli naturali ai privati. Insomma il quadro che fa mi pare condivisibile solo in parte, inoltre al suo posto non mi avventurerei in affermazioni come: “la capacità del mercato di autoregolarsi sembra ancora meritevole di fiducia” infatti, oltre a non essere suffragata da nessuna teoria economica, basterebbe ricordare il disastro combinato dei mercati lasciati a se stessi con l’ultima crisi per non essere così sicuri che si sappiano autoregolare.