mercoledì 23 dicembre 2015

Le idee dell'economia: La teoria del valore e del plusvalore e ciclo economico-Karl Marx


Karl Marx nacque in Germania, dove si laureò in filosofia. Dedicò inizialmente  la sua vita al giornalismo e, successivamente, alla attività politica  e pubblicistica. A causa delle sue idee girovagò come esule per l’Europa, vivendo a Parigi per un lungo periodo, ma trascorse la parte finale della sua vita a Londra dove scrisse le sua opera principale: Il Capitale[1].
Parlare di Marx è indubbiamente difficile, il suo pensiero molto caratterizzato politicamente è stato oggetto o di grande entusiasmo sino alla mitizzazione da parte dei suoi fautori, e di feroci critiche e attacchi da parte degli avversari. Il suo pensiero e la sua opera, comunque, hanno innegabilmente e pesantemente influito per oltre un secolo sulle vicende storiche europee e mondiali. Forse solo adesso, dopo la caduta dell’Impero Sovietico e la trasformazione economica della Cina, è possibile parlarne in maniera più distaccata.
Marx fu, come accennato, non solo un economista ma anche un filosofo, un sociologo, uno storico e un rivoluzionario, pertanto una trattazione completa della sua opera esula degli scopi di questo testo e quindi ci soffermeremo soprattutto, ben consci dei limiti di tale approccio,  sugli aspetti economici del suo pensiero.[2]
Se da un punto di vista politico fu un rivoluzionario, dal punto di vista economico  il suo pensiero viene comunque inserito, dalla maggioranza degli storici economici, all’interno della economia classica.
Per quanto attiene la sua teoria del valore, si può dire che riprende essenzialmente quella di Ricardo, infatti, la sua è una teoria del valore-lavoro. La teoria del valore-lavoro di Marx è molto più articolata e complessa di quella di Ricardo, pertanto  qui ci limiteremo a una sintesi dei principali aspetti.
Il valore di una merce per Marx è la somma di tre componenti. Il costo dei mezzi di produzione,  che  sono comunque lavoro (lavoro morto lo definisce), il quale  viene pagato in anticipo dal capitalista che, d’altra parte, anticipa il pagamento del lavoro (salario), seconda componente. La terza componente è quella che Marx definisce plus-lavoro. Questa è la parte del lavoro che viene impiegata nella produzione ma non viene pagata ai lavoratori, in quanto il capitalista retribuisce  solo una parte del lavoro[3] impiegato nel processo produttivo. Questa componente, quindi,  rappresenta un’appropriazione del capitalista, ovvero un vero e proprio sfruttamento dei lavoratori.
La teoria del valore di Marx può quindi essere così sintetizzata:

Valore della merce = mezzi di produzione + salario + plusvalore.
I mezzi di produzione vengono  definiti anche come capitale costante (C), mentre il salario pagato, che è comunque anticipato come capitale, viene definito come capitale variabile (V), quindi in sintesi:

Valore della merce = C+V+S ( dove S è il plus-valore).
Marx definisce composizione organica del capitale il rapporto C/V tra capitale costante e variabile, e come saggio di profitto (S/C+V), il rapporto tra guadagno (plusvalore) e capitale anticipato totale.
Con alcuni  passaggi matematici[4] si può  dimostrare che, date queste relazioni, il saggio di profitto è inversamente proporzionale alla composizione organica del capitale e quindi, se aumenta la composizione organica del capitale, diminuisce il saggio di profitto.
La teoria del valore di Marx, anche se più articolata di quella di  Ricardo, rimane una teoria del valore-lavoro. La differenza è che Marx, in base alla  sua definizione, arriva a dimostrare che il sistema capitalistico fa sì  che il capitalista stesso divenga  espropriatore di una parte del lavoro della classe lavoratrice, pertanto la sua  conclusione è che per porre  fine a questa espropriazione, «sfruttamento dell’uomo sull’uomo», è necessario passare a una società i cui mezzi di produzione siano collettivi.
Uno degli aspetti più  innovativi e con ricadute più importanti negli sviluppi successivi è quella  parte del pensiero di Marx che tratta dello sviluppo economico o, in altri termini, del ciclo economico.
Il punto di partenza è la spinta, nella società industriale, alla concorrenza che determina la ricerca costante, da parte dei capitalisti, della introduzione di nuove tecnologie e modalità produttive per espandere  la produzione e aumentare i profitti. Marx asserisce che la “composizione organica del capitale” tende a crescere, data la spinta ad accrescere la produttività. Questo aspetto sembrerebbe contrastare  con la precedente relazione che afferma che il saggio di profitto tende a decrescere con l’aumentare della composizione organica. Per spiegare questa apparente contraddizione Marx, nel III capitolo  del Capitale[5], ricorre alla teoria dei prezzi di produzione. La teoria si basa sulla ipotesi che il saggio di profitto e il saggio di sfruttamento[6] per effetto della concorrenza siano uniformi in tutta l’industria.
Si può dimostrare in base a queste ipotesi (vedi nota [7]) che le industrie con una maggiore composizione organica sono proprio quelle che riescono ad ottenere i prezzi (di produzione) più alti e quindi un  profitto maggiore.
A questo punto possiamo illustrare la sua teoria del ciclo economico. In una prima fase l’aumento della produzione conduce a una richiesta di maggiore mano d’opera con conseguenti richieste di aumenti salariali. Tale aumento di costi, e quindi di prezzi, conduce i capitalisti a introdurre ulteriori miglioramenti produttivi e pertanto ad un aumento della composizione organica che, a sua volta, tende a fare uscire mano d’opera dal processo produttivo e a ingrossare le fila di quello che Marx definisce «l’esercito dei lavoratori di riserva».
Marx chiarisce che all’interno dello scenario economico agiscono più “forze antagoniste”[8] che possono contrastare nel breve periodo queste tendenze, di fatto si hanno una serie di cicli economici con fasi di aumenti di produzione, aumenti di meccanizzazione produttiva e con crisi di sovrapproduzione.
La tendenza (Marx infatti afferma  che la legge della caduta dei profitti è tendenziale) come abbiamo visto è  di un continuo aumento della composizione organica del capitale che porta alla diminuzione del saggio di profitto, cosiddetta “legge tendenziale della caduta del profitto, il risultato finale e irreversibile è quello che porta alla concentrazione del capitale e all’impoverimento della classe lavoratrice, e che deve quindi condurre alla caduta del sistema capitalistico con la sua sostituzione con un sistema comunista.
Più precisamente, in una prima fase, si avrebbe la cosiddetta “dittatura del proletariato”, in cui verrebbe attuata la socializzazione dei mezzi di produzione; a questo periodo, una volta abolita la proprietà e quindi anche le classi, sarebbe seguita una società che non avrebbe avuto più necessità dello Stato.
L’opera di Marx è di per sé molto vasta, se a ciò aggiungiamo gli scritti successivi, dei fautori e dei critici, la quantità di documentazione  diventa sterminata, è evidente che non è possibile con i brevi cenni che ho esposto  dare delle sue teorie una rappresentazione esaustiva.
Certo è che l’opera di Marx risulta al tempo stesso “grandiosa” e “seducente”. Grandiosa perché fa rientrare in un disegno complessivo e razionale aspetti economici, storici e sociologici. Seducente perché presenta ad una classe, indubbiamente all’epoca sofferente e maggioritaria, un destino storico eroico e irreversibile. Se a questo uniamo una capacità ed efficacia di linguaggio, appare evidente come le sue teorie, con la loro carica “messianica”, abbiano avuto così presa e diffusione («Marx è un profeta» afferma Schumpeter [9]).
Altrettanto numerosi e forti sono stati, comunque, gli avversari con critiche, sia di natura politica che strettamente tecnica. Ci limiteremo solo ad alcune osservazioni e solo sugli aspetti strettamente tecnico-economici.
La sua teoria del valore, come anche quelle degli altri autori citati, è stata criticata sul piano tecnico e logico, ed in particolare vedremo più avanti i risultati sul tema dell’analisi di Sraffa.
Per quanto riguarda la previsione di un continuo impoverimento delle classi lavoratrici, questa non è avvenuta, così come predetto da Marx, e neanche la conseguente e inevitabile caduta del sistema capitalistico che, comunque, ha  indubbiamente attraversato crisi profonde come vediamo tra l’altro attualmente.
Se analizziamo poi gli esperimenti di “socialismo reale” che sono stati attuati, questi si sono realizzati  in società prevalentemente agricole e poco sviluppate industrialmente, contrariamente a quanto ipotizzato da Marx:

Il marxismo [...] predisse che il capitalismo avrebbe portato ad una miseria sempre crescente [...] e che ciò sarebbe accaduto, prima che altrove, in nazioni tecnicamente più sviluppate [...] sennonché la (cosiddetta) rivoluzione socialista si ebbe la prima volta in una delle nazioni tecnicamente più arretrate[10].

Per concludere, questo rapido e sintetico accenno alle teorie di Marx, non si può comunque negare la importanza e rilevanza delle sue idee nella storia del pensiero economico, come hanno riconosciuto anche i più critici, come Karl Popper: «La scienza progredisce attraverso tentativi ed errori. Marx tentò, e benché abbia sbagliato nelle dottrine fondamentali, non ha tentato invano. Egli ci ha aperto gli occhi e ce li ha resi più acuti in molti modi»[11].









[1] K.Marx, Il Capitale, Critica dell’Economia Politica, Editori Riuniti, Roma,1964.
[2] Lo storico Mark Blaug sostiene, comunque in, Great Economists before Keynes, che la opera di Marx è principalmente un’opera economica.
[3]Marx per precisione fa una distinzione sottile tra ”forza-lavoro”, capacità potenziale dei lavoratori di dispiegare il lavoro, che è la “merce” che acquistano i capitalisti, e il “lavoro” inteso come lavoro effettivamente svolto nel processo produttivo. Per Marx inoltre, come per tutti gli economisti classici, i lavoratori vengono pagati al “livello di sussistenza” cioè  al livello in grado  di garantire i loro bisogni e  mantenersi in grado di lavorare, livello che risulta dipendente dalle condizioni storiche.
[4] Saggio di profitto = S/C+V, se dividiamo numeratore e denominatore per V otteniamo S/V/q+1 , ove q=C/V ovvero la composizione organica del capitale.
[5]Tale parte del Capitale fu terminata dopo la morte di Marx a cura di Engels, suo amico, compagno di lotta e benefattore
[6] Il saggio di sfruttamento è il rapporto tra plusvalore e capitale variabile S/V.

[7] Grazie a questa teoria, Marx, dimostra che il  prezzo a cui si vendono le merci non è esattamente il valore definito dalla teoria del valore (!), ma  determinato dal  costo di produzione (C+V), a cui si aggiunge una quota di guadagno che è proporzionale al profitto medio o prevalente  dell’intera industria (R), il prezzo di produzione risulta quindi essere = C+V+R*(C+V), dove C capitale costante, V capitale variabile e R è il profitto medio o prevalente nell’industria. Esempio in tabella seguente.

[8]  Come “forze antagoniste” possiamo citare l’aumento dell’orario di lavoro che aumenta il “plusvalore”, o l’aumento di produttività e quindi diminuzione dei costi nel settore, ad esempio, di produzione dei macchinari (capitale costante).
[9] A.Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, Milano,2001.
[10] K.Popper, The philosophy of Karl Popper, The library of living philosophers, Open Court Publishing Co,U.S., 1977, II vol.
[11]  K.Popper, La società aperta, Armando, 1996, cap. II, pp. 414-415 .

venerdì 18 dicembre 2015

Le idee dell'economia:la legge degli sbocchi-Jean Baptiste Say e Malthus

Jean Baptiste Say (1767-1832) nacque in Francia, ma passò una parte della sua vita in Inghilterra dove ebbe l’opportunità di leggere le opere di Smith, oltre che studioso di economia fu dedito ad attività pratiche sia come imprenditore sia come giornalista.
Il suo nome, molto meno noto ai non economisti rispetto ai precedenti autori, è legato alla cosiddetta “legge degli sbocchi”[1], che nella forma più semplice può essere così enunciata: l’offerta crea la sua domanda. In altri termini tale legge afferma che chi produce i beni produce anche il reddito per acquistarli, ovvero che ogni venditore è anche compratore. Come conseguenza, per J.B.Say, non dovrebbero esistere  crisi di sovrapproduzione.
Abbiamo visto come, già in Ricardo, si manifestino i primi dubbi sul fatto che non esistano crisi di sovrapproduzione, altri autori, tra cui anche J.S.Mill, espressero delle teorie sulle crisi.  Comunque, in generale, possiamo dire che tale legge fu assunta come  valida, almeno sul lungo periodo piuttosto che sul breve, dalla maggioranza  gli economisti successivi.
Chi fu invece molto critico con questa legge fu Malthus (1766-1834), sacerdote anglicano che fu docente di storia ed  economia politica, amico di Ricardo con cui intrattenne un lungo rapporto epistolare, dove esprimeva posizioni spesso contrastanti a quelle di Ricardo stesso.
Il suo nome è legato alla teoria della popolazione, sostenuta nel suo libro Saggio sul principio della popolazione, dove sostanzialmente sosteneva che, se non limitata, la crescita della popolazione sarebbe stata maggiore della crescita del suo sostentamento con tutte le problematiche conseguenti.
Le sue  idee più interessanti, a mio parere, sono comunque quelle relative all’ assorbimento della produzione.
Il suo punto di vista, contrario alle idee di Say, è che l’aumento della produzione spinto dall’ utilizzo dei profitti reinvestiti piuttosto che dedicati al consumo e l’aumento della popolazione, che  sarebbe comunque  rimasta con i redditi fermi a livello di sussistenza, avrebbero determinato, di conseguenza,  una carenza di  domanda sufficiente ad assorbire la produzione stessa  e ciò avrebbe provocato una crisi innescando una spirale negativa.
La sua soluzione, da conservatore, era riposta nella necessità di classi improduttive (proprietari terrieri, funzionari pubblici, ecc…) che potevano, con la loro domanda aggiuntiva, garantire uno sbocco sufficiente alla produzione.
Come vedremo più avanti, sarà J.M.Keynes a riprendere le idee di Malthus sulla carenza della domanda con il concetto di domanda effettiva.




[1] Gli storici dell’economia  distinguono tra due versioni della legge, una più forte, detta “identità di Say” e una meno forte della legge, vedi ad esempio: Storia e critica della teoria economica di Mark Blaug.

venerdì 11 dicembre 2015

JOBS ACT E OCCUPAZIONE

Riprendiamo a parlare di disoccupazione e del Jobs Act, visto quello che è contenuto in uno studio in cui sembrerebbe che gli effetti del Jobs Act nel diminuire la disoccupazione non siano cosi esaltanti, cosi come riportato anche nei dati trimestrali ISTAT. Diciamo che  la cosa non mi sorprende, vedi precedente post infatti come ha spiegato bene Keynes la occupazione non si determina  solo nel mercato del lavoro, ma sopratutto nel mercato dei beni. Se c'è domanda e offerta di prodotti/servizi  e sopratutto queste aumentano, allora aumenta l'occupazione. In generale è chiaro che una diminuzione del costo del lavoro abbia effetti sull'offerta di lavoro, ma se diminuisco i redditi del lavoro ho anche una diminuzione dei consumi e della domanda, cioè un cane che si morde la coda. A meno che ad una diminuzione generalizzata dei costi del lavoro non ci sia una contemporanea e sostenuta diminuzione dei prezzi in modo da lasciare invariato il potere di acquisto dei lavoratori, cosa che sostengono i fautori del liberismo ma che non sempre, anzi forse raramente, accade. Quindi se si vuole un aumento della occupazione bisognerebbe agire su domanda (aumento dei consumi e/o maggiore spesa pubblica), aumento degli investimenti privati, maggiore competitività dei prodotti (ad es. maggiore ricerca e altro), insomma tutta una serie di interventi che sono complessi, lunghi e non facili da realizzare. Parliamo poi di flessibilità, non nego che l'evoluzione tecnologica e dei mercati non diano luogo a un maggior ricambio in merito al tipo e modalità di lavoro, quindi è chiaro che strutturalmente è difficile pensare che le persone possano mantenere a lungo un certo tipo di lavoro, dato che le condizioni cambiano, e quindi una maggiore  flessibilità è comunque un fatto assodato. Altra cosa è la flessibilità, "parculesca", cioè quella che costringe i lavoratori a situazioni sempre più precarie, questa sinceramente è evitabile, anche perchè dannosa per la società in generale e alla fine non consente neanche di fare investimenti sulle persone e sulla loro crescita professionale, quindi non va neanche troppo a vantaggio delle imprese, su questo credo che ci siano degli elementi nel Jobs Act positivi ma in alcuni casi contraddittori. Insomma quello del Jobs Act era un tentativo limitato e sbrigativo per risolvere il problema, mentre i problemi veri rimangono sul tappeto. Certo la situazione in cui ci siamo cacciati, euro e politiche controproducenti  della Commissione  europea, non facilita le scelte, comunque qualcosa di più a parità di condizioni si poteva fare, ma come al solito i vincoli elettoralistici e la scarsità di spessore del panorama politico italiano non aiutano.