mercoledì 23 novembre 2016

K. Polanyi - La grande trasformazione

Oggi parliamo di un libro non certamente nuovo, infatti la prima edizione è uscita nel 1944, quindi non recentissimo, ma tale libro contiene alcune riflessioni che sono comunque attuali e vale la pena di essere letto, anche se non è di facile reperimento in lingua italiana, mentre lo trovate facilmente anche in rete in lingua inglese.
Diciamo subito che è un libro complesso pieno di argomenti e argomentazioni, una sua sintesi è quindi da escludere al massimo cercherò di esporre alcune sue idee. 
E’ un libro complesso, è infatti in parte storico, sociologico, economico e politico, ovvero ricostruisce la storia della evoluzione (la grande trasformazione) della società occidentale evidenziando la interrelazione profonda tra i piani economici, politici e sociali.
Si parte da una visione del periodo che va dal 1815 alla prima guerra mondiale, un periodo di sostanziale pace (la pace dei cent'anni) tra le grandi potenze con solo qualche guerra a carattere locale.
Quali erano le forze che hanno determinato tale situazione di pace? Per Polanyi sono quattro: l’equilibrio del potere delle grandi potenze, la base aurea, il mercato autoregolato e lo stato liberale. Di questi elementi quello fondamentale era il mercato autoregolato, la cui idea per l’autore è che sia puramente utopica perché la sua istituzione porta come conseguenza alla distruzione della società, per questo la società stessa genera delle forze che cercano di contrastare il mercato
Tornando al periodo di pace questo terminò quando i contrasti tra le grandi potenze per il dominio coloniale superarono la capacità, soprattutto della alta finanza, di contrastare le rivalità tra i paesi. Il periodo successivo tra le due guerre sancì la fine del sistema aureo, infatti i tentativi di mantenerlo in piedi costringevano i paesi alla deflazione che a sua volta generava problemi di produzione e quindi povertà e ulteriore chiusure al commercio. Ma il problema maggiore per Polanyi resta l’idea del mercato autoregolato, il cui sviluppo fu favorito storicamente dallo Stato, ma liberare i mercati metteva in pericolo la organizzazione sociale, di fatto mentre il sistema economico, precedentemente, era assorbito dal sistema sociale, si arrivò a separare politica ed economia con la mercificazione progressiva del lavoro e della terra (terra e lavoro sono per Polanyi merci fittizie). Interessante è anche la parte in cui espone le differenze tra la moneta-merce ("vitale per l'esistenza del commercio estero") e la moneta-segno che "si diffuse per proteggere il commercio dalle deflazioni forzate". 
La moneta merce sarebbe, quindi, incompatibile con la produzione industriale e con la disgregazione della base aurea cessò quindi di esistere. Polanyi aggiunge, inoltre, che "il crollo della base aurea rappresentò anche il fallimento definitivo dell'economia di mercato". La sua diagnosi della crisi politica che ha condotto alle guerre mondiali è:
"La tensione sorgeva dal mercato di lì passava alla sfera politica e quindi a tutta la società. Quando la base aurea cadde la tensione all'interno delle nazioni si liberò".
Quali sono le lezioni ancora valide di Polanyi? 
Primo che il mercato autoregolato è una pericolosa illusione, infatti, se il secondo dopoguerra è stato anche caratterizzato da una certa stabilità e prosperità lo dobbiamo alle politiche keynesiane del dopoguerra e dall'intervento dello Stato come regolatore e moderatore dell'economia. Quando la furia iperliberista dagli anni '70 ha cominciato a propagandare l'idea che lo Stato è male e sarebbe meglio ridurlo al minimo le crisi economiche e sociali sono aumentate. 
Secondo, l'idea che la moneta non sia neutrale, come succede per l'euro che di fatto rappresenta il gold standard europeo e infatti costringe i paesi deboli del sud alla deflazione e svalutazione del lavoro.
Inoltre, l'idea che il mercato autoregolato costringa la società a trovare soluzioni per evitare le conseguenze negative che questo comporta, cosa che vediamo con l'avanzata del cosiddetto populismo, che non è altro che una normale reazione della società a forze che tendono a distruggerla.
Concludo con un suo monito alle classi dirigenti :
"Nessuna classe che difenda rozzamente soltanto i suoi interessi può mantenersi al potere."

sabato 12 novembre 2016

Elezioni americane

Sulle elezioni americane e la vittoria di Trump ormai hanno scritto tutti e di tutto, ammetto che pur avendo molti dubbi su Hillary Clinton non pensavo che alla fine Trump vincesse. Ora sulle ragioni che hanno determinato la vittoria ci sono sicuramente molte motivazioni: voglia di cambiamento, delusione verso il cambiamento promesso da Obama e quanto realizzato o percepito, insoddisfazione per a situazione attuale, ecc. 
E’ indubbio che le risposte del cosiddetto establishment alle criticità attuali sono state in parte deludenti. Rispetto alle colpe a ai disastri causati da Wall Street pochi hanno pagato e poco è cambiato,  e la Clinton non rappresentava un deciso cambiamento in questo senso; che la classe media americana stia peggio di prima è indubbio e parimenti stia sparendo quella classe operaia che ne faceva parte o era contigua. 
E’ inutile continuare a mentire sulla globalizzazione, la verità ammessa dalla teoria economica è che può essere un vantaggio nel complesso ma per molti significa un passo indietro, e all’elettore americano se sta  meglio l’operaio cinese poco interessa se a pagare è lui. Delle straordinarie potenzialità della tecnologia ancor meno se significa essere cacciato dal posto di lavoro.
I problemi di una società in termini economici in realtà si possono ricondurre a pochi aspetti: la domanda e l’offerta e la distribuzione del prodotto nazionale. Aumentare l’offerta è il primo passo per far partire il meccanismo di crescita che porta ad ulteriore aumento di produzione e di offerta. Come diceva Marshall domanda e offerta sono le due lame di una forbice che quindi funziona se ci sono entrambe. Quindi un economia funziona bene se all’aumentare della offerta aumenta la domanda e questo succede se la distribuzione dei ricavo di quanto prodotto avviene in maniera tanto più equilibrata tra i fattori produttivi. Tale equilibrio non è naturale ma dipende da i rapporti di forza, se il lavoro perde forza perché il capitale può far ricorso al lavoro esterno a più basso costo c’è poco da fare, il fattore produttivo lavoro, soprattutto poco qualificato, perde potere contrattuale e valore di mercato, se poi aggiungiamo la possibilità di sostituire lavoro con macchine è chiaro che la situazione non può che peggiorare. 
Ora queste dinamiche dovrebbero essere chiare a chi si pone il compito di fare da leader di un Paese.
La evoluzione tecnologica e della società porta a dei grossi  sconvolgimenti (vedi Polanyi), la rivoluzione industriale in Inghilterra non è stata una passeggiata di salute per chi l’ha subita, ma siamo nel XXI secolo e mi aspetterei  che adesso ne sappiamo di più nella comprensione dei fenomeni. 
E’ evidente che la situazione sia difficile ma gestibile se le 3 forze in campo sono forti ed equilibrate: Stato, Democrazia e Mercato. Il problema è che per quanto lo Stato, le sue istituzioni e meccanismi siano migliorati rispetto a qualche secolo fa, le forze economiche sono sempre più transnazionali e tendono a eludere i loro doveri nazionali. La democrazia è anche schiacciata, le forze di mercato hanno cercato sempre più di imporre le proprie regole tramite l’attività di lobbying e a pagare il conto sono sempre le classi medio e basse, infatti la ricchezza si sta concentrando sempre di più. Quindi, mi pare anche giusto che il "popolo" dei paesi sviluppati (ovvero l’elemento centrale della democrazia) voglia contare di più e rompere gli equilibri attuali che lo stanno mettendo sempre di più ai margini delle decisioni e della ricchezza. Il problema è quindi dove cercare la soluzione a questi problemi che a mio parere viene indirizzata in maniera sbagliata; d’altra parte se le classi dirigenti, in senso lato politiche ed economiche, non sono in grado di capire cosa sta succedendo e danno risposte parziali o addirittura sbagliate, come sta avvenendo in Europa, non deve sorprendere la crescita dei populismi di vario genere. I fallimenti o i successi delle leadership sono quello che definiscono il corso della storia e degli avvenimenti, il fallimento delle leadership europee dagli inizi del ‘900 hanno portato in Europa a due guerre mondiali e negli Stati Uniti a due recessioni micidiali di cui la seconda, quella recente, almeno attutita dalle conoscenze accumulate. Non credo che Trump sia la soluzione.
Se infatti pensa di risolvere i problemi con minori tasse per i ricchi, basta guardare il grafico sopra per capire come il cosiddetto trickle-down non abbia funzionato, anzi la concentrazione di ricchezza è la causa anche dei problemi dell'economia americana e non solo. Ha promesso maggiori investimenti in lavori pubblici e questo è senza dubbio positivo, in realtà cosa fanno i presidenti americani una volta eletti è difficile dirlo spero tanto di sbagliarmi su Trump. 
Il problema di fondo resta: dove sono le leadership (politiche ed economiche) illuminate in grado di contrastare una deriva innescata principalmente dalla insipienza delle stesse leadership degli ultimi tempi?