sabato 24 ottobre 2020

Thomas Piketty - Capitale e ideologia

Ho finito di leggere, lettura non breve, il monumentale (1200 pagine) ultimo libro di Thomas Piketty, economista francese, del quale abbiamo recensito nel blog il libro Il Capitale del XXI secolo

Rispetto al suo precedente libro, tra l'altro di grande successo,  questo è forse meno economico e più sociale. In pratica, per lunga parte, è la storia della evoluzione economica, sociale e istituzionale di moltissime nazioni, partendo dall'Europa medioevale sino alla Cina e India moderne; in particolare come afferma l'autore è la storia e l'evoluzione dei regimi basati sulla diseguaglianza. Inoltre, mette in evidenza, sin dall'inizio, come sia anche una storia soprattutto di ideologie, in ogni epoca la  società produce ideologie finalizzate a legittimare la diseguaglianza e, nelle società contemporanee, la ideologia è una narrativa "proprietarista" 3e meritocratica.

In primo luogo definisce la ideologia come un insieme di idee o narrazioni intese a descrivere come si dovrebbe strutturare una società. Inoltre, i problemi di regime politico e quelli di regime di proprietà sono intimamente connessi da cui ne consegue, per l'autore, che la diseguaglianza non è economica o tecnologica ma ideologica e politica e, quindi, le ideologie contano nel modellare le società. In particolare negli ultimi decenni si sta verificando un aumento della diseguaglianza in maniera inequivocabile  quasi ovunque dopo una sua diminuzione nel XX secolo, frutto della globalizzazione e della incapacità della sinistra (e io direi forse grande difficoltà) nel riorganizzare la redistribuzione economica su base transnazionale.

Segue l'analisi storica partendo dalle società ternarie (Nobiltà, Clero e terzo Stato) ovviamente diseguali, e dove diritti di proprietà e funzioni sovrane sono inestricabilmente legati. La evoluzione dello Stato moderno avviene tramite il logoramento di quest'ordine.

Con la Rivoluzione Francese si pongono le basi per la nascita della società borghese e proprietarista, con il  proprietarismo emerso grazie anche alla formazione di uno Stato centralizzato. Rimane, comunque, evidente il  fallimento nella soluzione del problema della diseguaglianza della proprietà, che non diminuisce anzi finisce per crescere, il vero calo della concentrazione dei patrimoni inizia dopo la prima guerra mondiale. Nel libro vengono poi evidenziate le traiettorie storico istituzionali delle varie nazioni europee.

Nella seconda parte delinea la storia delle società schiaviste e coloniali (Europa e Stati Uniti)  che hanno influito sulla evoluzione economica e politica delle società extraeuropee, India, Cina, Giappone ecc.

La terza parte è incentrata sulla grande trasformazione nelle società occidentali dalla fine della prima guerra mondiale sino agli anni '70; in questo periodo la diseguaglianza diminuisce grazie al tracollo dei patrimoni privati per distruzione, espropriazione e inflazione, cioè per motivi in parte accidentali ma anche politici grazie alla introduzione del suffragio universale che sposta gli equilibri politici e quindi ideologici (vedi anche influenza della Rivoluzione Russa). La introduzione della progressività fiscale ha permesso di sostenere il welfare ma anche le spese fondamentali per lo sviluppo (istruzione, ricerca, infrastrutture). L'autore mostra anche i limiti delle società contemporanee negli ultimi decenni nel affrontare i cambiamenti che hanno portato ad un aumento della diseguaglianza e al ritorno di un alta concentrazione della proprietà. Oltre alla globalizzazione questo fenomeno di aumento di diseguaglianza si deve alla narrativa/ideologia neo proprietarista che esalta il merito e gli imprenditori ma sotto tale copertura vengono perpetuati i privilegi sociali.

Affronta poi il tema delle elezioni mostrando come, in Europa e Stati Uniti, a una divisione "classista elettorale", cioè i ricchi e proprietari (e in genere i più istruiti) che votavano  a destra e le classi meno agiate a sinistra, sia succeduta una stratificazione multipolare. La sinistra tradizionale è passata, sorprendentemente, da partito dei lavoratori a quello delle élite laureate, mentre la destra tradizionale (destra mercantile) rimane con la élite dei proprietari. Crescono a fianco di queste due suddivisioni negli ultimi anni, per effetto della insoddisfazione delle classi popolari, dei partiti cosiddetti social-nativisti con collocazioni spesso a destra (ad esempio Lega o Front National) o miste (5 stelle). In altri paesi extra europei, come l'India, la traiettoria delle suddivisioni elettorali è stata diversa sviluppando, nel tempo, una forma peculiare di divisione classista/religiosa con le classi (caste) alte indù divise elettoralmente dalle caste più basse e di appartenenti ad altre religioni (musulmani).

Nel finale l'autore delinea alcune ricette, per quanto egli ammetta essere imperfette e fragili, perché lo scopo dell'autore è piuttosto aprire il dibattito e non quello di chiuderlo.

Le proposte sinteticamente sono:

  • condividere il potere nelle imprese aumentando la partecipazione dei lavoratori (cogestione);
  • istituire norme che impediscano la concentrazione incontrollata di ricchezza tramite imposte progressive sul reddito, successioni e una tassa annuale sul patrimonio globale;
  • tassazione progressiva dei singoli consumatori per la CO2 emessa;
  • aumentare in maniera sostanziale le risorse investite negli istituti di formazione più svantaggiati;
  • promuovere  una democrazia partecipativa ed egualitaria depotenziando il  finanziamento elettorale privato;
  • aumentare la democrazia transnazionale con una sovranità parlamentare europea privilegiata.
Alcune considerazioni sintetiche sul libro. Sicuramente è un libro interessante e pieno di informazioni storiche e sociali, ritengo, comunque, che per un libro che è dedicato al grande pubblico la sua dimensione sia eccessiva, diventando alla lunga di non facile lettura e dispersivo, credo che libri così voluminosi rispondano più alle esigenze dell'autore che del lettore.

Che il problema della diseguaglianza sia uno dei problemi fondamentali è ormai piuttosto noto.  La diminuzione della diseguaglianza all'interno di un paese e tra paesi, come ho scritto nel mio libro sulla economia, non è un imperativo solo morale ma di efficienza economica, questo dovrebbe essere chiaro alle elìte dominanti per cercare di ridurlo per il bene di tutti anche dei più ricchi. Basti pensare solo allo spreco di risorse che si produce non permettendo ad alcune persone di dispiegare il proprio potenziale intellettuale che potrebbe essere utilissimo alla società. Quello che è chiaro, anche all'autore, è che molti problemi, compreso quello ecologico, non sono risolvibili solo su scala nazionale ma hanno dimensione transnazionale. Questo pone un grandissimo problema di coordinamento che abbiamo visto è difficilissimo raggiungere, come evidenziato anche da Rodrik ad esempio nel suo trilemma sulla globalizzazione e la democrazia. Tutto questo richiede in primo luogo un miglioramento delle leadership politiche che dovrebbero essere più preparate, mentre il deterioramento nel funzionamento della democrazie sta portando a leadership sempre più "populiste", termine che Piketty non ama, che tendono a promettere soluzioni  che una popolazione sempre più spaventata e in difficoltà chiede,  ma si rivelano sbagliate o alla fine favoriscono le elìte dominanti (vedi ad esempio Trump). Certo, come afferma Piketty, la colpa è anche dei cosiddetti progressisti che hanno perso di vista il loro compito e sono diventati i rappresentanti delle elìte intellettuali e sempre meno delle masse popolari. Tentativi come quello dei 5 stelle di recuperare la partecipazione popolare sono in teoria giusti e condivisibili, ma anche in questo caso ci vogliono leadership preparate altrimenti le proposte che vengono portate avanti diventano confuse e a volte controproducenti o sprechi di denaro.

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