venerdì 23 ottobre 2015

Alcune domande sulla legge di stabilità

Alcune considerazioni sulla legge di stabilità. 2016. A dire il vero ha un articolazione complicata e ancora non sono chiari i dettagli; da quanto emerge è fatta di meno tasse (sulla casa), meno costi (spending review) e altro, complessivamente sono comunque 14.6 miliardi in più di indebitamento quindi in teoria espansiva e su questo potremmo essere soddisfatti. Premesso che voglio vedere se effettivamente riusciranno a fare tutti i tagli previsti, ragioniamo sul contenuto e se non vogliamo parlare a vuoto partiamo sempre dalla magica formula del PIL:


PIL=CONSUMI+INVESTIMENTIPRIVATI+SPESA PUBBLICA+ESPORTAZIONI-IMPORTAZIONI

Tale manovra sembrerebbe favorire i consumi con meno tasse, aumentando quindi il reddito disponibile delle famiglie, un aumento dei consumi però potrebbe comportare anche un aumento delle importazioni andando a vanificare il risultato complessivo. Tra l’altro riducendo tutte le tasse sulla casa si favoriscono in media i redditi maggiori con minor propensione al consumo e quindi anche l’effetto sui consumi potrebbe essere ridotto e allora forse non era meglio ridurre l’IRPEF? Inoltre,  non sarebbe stato meglio aumentare la spesa pubblica, visto che l'effetto sul PIL è diretto mentre i consumi sono limitati dal risparmio ( tecnicamente si dice che il moltiplicatore è più basso) cercando di incrementare la spesa in particolare sui servizi che generalmente sono a fornitura locale e avrebbero meno incidenza sulle importazioni, o cercare di aumentare l’export dando qualche ulteriore incentivo agli investimenti delle imprese ? Non parliamo poi del limite dei 3000 euro sui contanti, certo il limite precedente non risolve il problema della evasione ma vorrei capire chi va in giro con 3000 euro in contanti, quelli a reddito più alto sono anche quelli che generalmente usano le carte, gli anziani e pensionati credo che in molti casi non li vedono proprio 3000 euro in contanti....a chi serve ?

martedì 20 ottobre 2015

Hyman Minsky- Keynes e l'instabilità del capitalismo

Oggi la recensione è su un libro non recente ma il cui autore è stato recentemente rivalutato e citato in merito alla ultima crisi. Qualche notazione biografica: Hyman Minsky, nasce a Chicago nel 1919, dove si laurea in matematica. Successivamente ottiene il dottorato in economia, allievo anche di Schumpeter. Insegnerà in varie università americane tra cui Harward e Berkley. Muore a New York  nel 1996.
Il suo libro Keynes e l’instabilità del capitalismo[1], parte  da una rilettura di Keynes che secondo Minsky è stato  in qualche modo travisato dalla interpretazione neoclassica: «la sintesi neoclassica […] tradisce lo spirito e la sostanza dell’opera di Keynes», mentre la sua intenzione è di dare una reinterpretazione di Keynes focalizzandosi sulla instabilità finanziaria:
La mia reinterpretazione di Keynes pone in primo piano il ruolo che le interrelazioni finanziarie, con la loro instabilità e facile perturbabilità, svolgono nel determinare le varie fasi del ciclo economico
Quindi Minsky si concentra sugli aspetti monetari e finanziari, che sono i tratti essenziali di un economia capitalistica moderna, affermando che Keynes era per lui un economista principalmente monetario. Il carattere finanziario del capitalismo moderno è anche la ragione di fondo dell’ andamento ciclico di un economia capitalistica:
Nella teoria di Keynes la causa immediata di ciascuna fase ciclica è l’instabilità degli investimenti ma la causa  di fondo del ciclo economico […] va individuata nella instabilità delle composizioni di portafoglio e delle interrelazioni finanziarie.
Altro aspetto che mette in evidenza e recupera dall’analisi keynesiana è quello dell’incertezza[2], in quanto questa incide a sua volta profondamente sulle strutture finanziarie e, inoltre, le stesse imprese non dipendono solo dalla attività produttiva ma sono condizionate dall’andamento dei mercati finanziari in quanto richiedono finanziamenti per i loro investimenti.

Un altro aspetto evidente in Minsky è la natura endogena dell’offerta di moneta, infatti piuttosto che dalla autorità monetarie essa è generata all’interno del sistema economico e, in particolare, dalle banche in funzione delle necessità delle attività imprenditoriali, dei mercati finanziari e dei percettori di reddito. All’aumentare della richiesta di moneta si moltiplicano, quindi, anche le innovazioni finanziarie e, qualora le banche centrali cerchino di adottare una politica restrittiva ad esempio aumento dei tassi, il mondo finanziario supplisce con la creazione di nuovi strumenti finanziari.
Per quanto riguarda gli investimenti, pur partendo dall’analisi keynesiana, cerca di chiarire alcuni aspetti e integra l’analisi  con alcune aggiunte significative[3], mettendo comunque in evidenza  che la teoria degli investimenti di Keynes e il suo andamento ciclico sono in relazione con alcune variabili determinate dai sistemi finanziari. 
La spiegazione di Minsky è molto più  complessa è articolata di Keynes e soprattutto della versione di Hicks che, a suo parere, fa «una caricatura della teoria keynesiana degli investimenti». In particolare  mette in luce le interrelazioni tra domanda dei beni capitali, che a sua volta influisce sugli investimenti, non solo con l’interesse e la offerta di moneta ma anche con il mercato azionario. Il livello degli investimenti dipende dal prezzo di domanda e offerta di beni capitali, ma la domanda di beni capitali dipende dalle aspettative dei profitti che gli imprenditori si aspettano di guadagnare da essi e che, a sua volta, dipende dal tasso di interesse con cui attualizzare tali rendite, tasso di interesse influenzato  dall’offerta  di moneta. In particolare la enfasi di Minsky è sui flussi di guadagni e pagamenti, le imprese basano le loro richieste di finanziamento sulle aspettative dei loro rendimenti o guadagni, se queste attese non vengono confermate rischiano di trovarsi in una situazione critica dal punto della possibilità di far fronte ai pagamenti per i prestiti in essere, passando da una posizione “coperta” a una  “speculativa”[4], questo può comportare sia una riduzione degli investimenti sia  la necessità di smobilitare attività che, a sua volta, provoca una  caduta dei prezzi e dei corsi azionari e, inoltre, induce le banche a ridurre le loro posizioni e quindi ridurre il credito, con una spirale evidentemente negativa sulla intera economia.
La fluttuazione del livello degli investimenti va imputata quindi principalmente alla instabilità delle relazioni finanziarie, considerando i fenomeni di eccessivo indebitamento tra i principali fattori in grado di scatenare una crisi finanziaria. L’instabilità finanziaria dei sistemi capitalistici è, comunque, conseguenza di decisioni economiche decentrate: banche, imprese. Un sistema capitalistico può quindi trasformare una fase di boom in una depressione profonda, è pertanto un economia che procede secondo un andamento ciclico che ne rappresenta un tratto ineliminabile.
Minsky evidenzia, inoltre, il ruolo del rischio e della sua soggettività, che suddivide nei  suoi due aspetti: rischio del debitore e del creditore.
Quindi i cicli economici positivi (crescita) sono caratterizzati sia dalle aspettative di profitti e sia dalla riduzione del rischio percepito. Viceversa i cicli negativi sono caratterizzati da aspettative sui profitti in calo e aumento del rischio percepito. L’instabilità finanziaria deriva sostanzialmente, per Minsky, dalla pratica di finanziare attività a lungo termine con la sottoscrizione di passività a breve scadenza. Quindi un sistema economico è tanto più fragile quanto più sono diffuse le strutture esposte ai rischi finanziari, in un sistema economicamente fragile anche piccoli cambiamenti delle condizioni dei mercati finanziari possono provocare una instabilità elevata:
In un economia capitalistica un elemento essenziale della realtà è rappresentato dalla interrelazione tra i vari stati patrimoniali delle unità economiche. I banchieri sono inevitabilmente degli speculatori.
Minsky sottolinea poi che nel sistema economico, in maggioranza, gli agenti economici condividono le stesse aspettative, per questo l’euforia o il panico si diffondono rapidamente. Per cui le situazioni di stabilità e crescita («la stabilità è destabilizzante») sono quelle che rischiano, diffondendo l’ottimismo, di generare meccanismi di ricorso al debito che, con il meccanismo che sopra abbiamo accennato, possono portare a delle crisi, quando ad esempio si verifica un rialzo del tasso di interesse e un razionamento del credito. A ciò segue infatti rapidamente una caduta degli investimenti, dei profitti e della  domanda, la gravità e durata della crisi dipenderanno dal comportamento delle autorità economiche.
La crisi non è altro, quindi  per Minsky, che il normale risultato del funzionamento del sistema capitalistico, ovvero i rischi di crisi sono soprattutto endogeni al sistema capitalistico  stesso e non solo quindi generati da shock esterni.
L’andamento del sistema economico dipende, come abbiamo detto, principalmente, dalla capacità delle imprese di restituire i debiti contratti. La Banca centrale ha quindi una funzione importante di prevenzione del crollo tramite il suo ruolo di “prestatore di ultima istanza”. Inoltre lo Stato, attraverso la spesa pubblica può prevenire o attenuare la depressione economica infatti, quando cade l’investimento privato, la crescita della spesa pubblica può stabilizzare i profitti attesi arrestando la discesa dei prezzi e la depressione economica.
Nella ultima parte del libro analizza i modi per contrastare i cicli anche se l’economia capitalistica resta intrinsecamente instabile. In particolare evidenza che una strategia volta a favorire gli investimenti privati, condotta negli ’60, ha i suoi limiti: «una strategia per la piena occupazione fondata su livelli elevati di investimenti e profitti conduce […] verso un sistema finanziario sempre più instabile».[5]
La sua ricetta economica e sociale è più complessa e articolata:
Una economia dove i settori guida sono socializzati, dove i consumi collettivi soddisfano una grossa quota di bisogni privati, dove la tassazione dei redditi e della ricchezza tende a ridurre le disparità economiche, dove esistono leggi che limitano la possibilità di speculare sulla struttura delle passività, una tale economia dicevo potrebbe dimostrarsi capace di raggiungere e mantenere uno stato di piena (o quasi)  occupazione senza con ciò generare quelle tensioni e instabilità inerenti alla strategia economica correntemente adottata.

I lavori di Minsky non ebbero all’interno dell’establishment  economico una grande rilevanza e le sue teorie rimasero confinate soprattutto  all’interno delle corrente post-keynesiana. La recente crisi, come accennato all'inzio,  ha riaperto il dibattito sul lavoro di Minsky, infatti  molte delle sue idee che abbiamo esposto sembrano descrivere molto bene la natura dello scoppio della recente crisi economica, in particolare il generarsi di un clima che ha aumentato l’assunzione di rischi e l’accrescersi della speculazione.
Nel caso della crisi attuale c’è da evidenziare, a differenza di quanto sostenuto da Minsky, che questo è imputabile  al fatto, come evidenziato da alcuni autori[6],  che  le  istituzioni finanziarie hanno alimentato il circolo perverso del finanziamento alle famiglie piuttosto che alle imprese.
Quindi un libro assolutamente interessante anche se in alcune parti richiede un impegno notevole e un po di conoscenza dell'economia.





[1] H.P. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Boringhieri, Torino,1981.
[2] «Keynes senza incertezza è l’Amleto senza il Principe», ivi, p.78.
[3] «Keynes però non ci presenta una teoria esplicativa della crisi [ …] senza un modello che generi endogeneamente boom, crisi e deflazioni creditizie la teoria di Keynes resta incompiuta”, ivi, p.86.
[4] Minsky distingue tre posizioni finanziarie in cui si possono trovare le unità economiche. Posizione coperta quando il flusso di rendite è superiore al flusso di pagamenti. Posizione speculativa quando le rendite sono sufficienti almeno a pagare gli interessi sui prestiti. Ultra-speculativa quando i flussi di rendite non coprono nemmeno gli interessi sui prestiti.
[5] Ivi, p.216.
[6] Vedi a questo proposito la introduzione del citato libro di Minsky a cura di R.Realfonzo.