mercoledì 3 agosto 2022

John Quiggin - Zombie Economics- Università Bocconi Editore

Pur non essendo un libro recentissimo, 2010, è un libro valido e interessante per cui vale la pena recensirlo.

Il libro è fondamentalmente una critica alle idee della teoria economica recente, idee assurte alla notorietà ma con scarsi fondamenti e risultati pratici, tanto da non potersi più considerare idee valide, idee di fatto morte ma non del tutto, zombie appunto, perché qualcuno cerca ancora di riproporle o ristabilirne la validità.
Le idee che nel corso del libro l'autore critica sono:
  • la grande moderazione, ovvero che si fosse raggiunto un periodo di stabilità economica;
  • la ipotesi dei mercati efficienti, cioè che i prezzi generati dai mercati finanziari fossero la migliore stima del valore di un investimento;
  • l'equilibrio generale dinamico stocastico (DSGE), la idea che la macroeconomia possa essere rigorosamente individuata da modelli microeconomici basati sul comportamento individuale;
  • la idea del “gocciolamento” (trickle-down), cioè che le politiche che favoriscono i ricchi finiscono per favorire tutti;
  • le privatizzazioni, ovvero che i privati possano fare generalmente meglio dello Sato in qualsiasi settore.

La grande moderazione nasce a fine anni '90, quando il boom economico produce inizialmente un periodo di crescita dei redditi dopo un periodo di stagnazione. La espressione viene coniata da Bernanke (ex capo della FED) per definire una nuova era di grande stabilità, ai più sembrava che il ciclo economico fosse stato domato. Per gli economisti liberisti la giustificazione risiedeva nel fatto che le idee del liberismo economico avevano prodotto una prolungata prosperità. In realtà al di sotto di un apparente stabilità giacevano equilibri insostenibili e rischi non gestiti, al contrario di quello che pensavano gli economisti mainstream per cui i mercati finanziari erano in grado di gestire i rischi grazie anche alle politiche delle banche centrali; i rischi sarebbero stati gestiti meglio dagli individui e imprese piuttosto che dai governi. D'altra parte gli economisti keynesiani e non allineati (es. Minsky) ritenevano che senza una adeguata regolazione l'instabilità finanziaria sarebbe prima o poi esplosa. Secondo l'autore, sebbene gli aggregati finanziari sembravano più stabili, individui e famiglie sperimentavano rischi e instabilità crescenti. A causa di ciò le famiglie, per mantenere i livelli dei consumi a fronte di redditi sempre meno sicuri, hanno risposto indebitandosi, quando la crisi è arrivata sono arrivate le difficolta a ripagare i debiti (mutui) con la successiva esplosione della crisi economica che ha colpito tutte le attività e i paesi.
La gestione del rischio, per Quiggin, non può rimanere solo individuale ma riguarda la gestione sociale e collettiva dei rischi. Inoltre i cicli economici sono profondamente radicati nella economia di mercato e, purtroppo, certe teorie ci hanno spinto a dimenticare le lezioni del passato.

La ipotesi alla base alla idea dei mercati efficienti è che il prezzo di un attività sul mercato finanziario non solo rappresenta la stima migliore del suo valore ma anche la migliore possibile date le informazioni disponibili. I prezzi generati dalle borse, pertanto, sono la stima migliore del “giusto prezzo”. Corollario di queste idee è che non possono esserci “bolle” nei prezzi della attività finanziarie, queste idee hanno pertanto spinto la enorme crescita del mercato finanziario.
Anche se la ipotesi dei mercati efficienti presenta molte manchevolezze teoriche e soprattutto pratiche, è stata la crisi del 2008 a determinarne la morte definitiva. I mercati finanziari, asserisce l'autore, possono infatti generare bolle che la politica economica dovrebbe evitare ricorrendo a più strumenti: politiche macroeconomiche e regolamentazione. Le innovazioni finanziarie andrebbero trattate con cautela e andrebbero proibiti intrecci tra sistemi finanziari protetti e non protetti.
Una economia mista è indubbiamente migliore della pianificazione centralizzata o del totale laissez -faire, la grande difficoltà ammette Quiggin è determinare il giusto mix tra pubblico e privato.

La teoria dell' equilibrio generale stocastico dinamico (DSGE) parte dalle teorie dell'equilibrio generale di Arrow e Debreu che a sua volta rappresentano un evoluzione di quelle di Walras (vedi anche qui e vedi capitolo dedicato all'equilibrio sul mio libro).
I modelli di equilibrio generale prevedono mercati completi e perfettamente concorrenziali, escludendo di fatto recessioni e fenomeni reali di ciclo.
Per evitare questi problemi i modelli DSGE accettano che salari e prezzi possano essere lenti ad aggiustarsi e che vi siano squilibri fra domanda e offerta, pertanto i modelli DSGE prevedono la possibilità di disoccupazione e bolle, non prevedono però la possibilità di un collasso generale. I modelli DSGE prevedono una gestione macroeconomica basata sul controllo dei tassi di interesse (Regola di Taylor), di fatto non sono stati in grado di prevedere la crisi rivelandosi inutili ancorché molto sofisticati. Per costruire una teoria generale macroeconomica l'autore afferma che deve includere boom e depressioni, che non possono essere trattati solo come deviazioni marginali e temporanee dell' equilibrio generale. La economia è inserita in una complessa struttura sociale e c'è una interazione continua tra sistema economico e la società. La fiducia sociale e la confidenza negli affari non possono essere ridotti alla psicologia individuale (micro-fondazioni economiche), derivano invece da interazioni economiche e sociali fra le persone. La validità generale dell'approccio keynesiano risiede nel fatto che il comportamento macroeconomico è una proprietà “emergente” del sistema economico (vedi anche qui) piuttosto che da spiegazioni microeconomiche. Quiggin comunque avverte che le prescrizioni di politica macroeconomica vanno impiegate in maniera coerente durante tutto il ciclo sia per ridurre la domanda in eccesso nei periodi di boom e sia per stimolare la domanda durante le recessioni.

L'economia del gocciolamento è forse la idea più semplice ma anche quella con meno basi teoriche. La si può derivare dalla cosiddetta curva di Laffer, cioè che all'aumentare della tassazione sui redditi si ha una punto in cui vi è convenienza a non lavorare e produrre, con riduzione del reddito complessivo e quindi anche delle entrate fiscali. Da qui la idea che riducendo le tasse si creerebbe più crescita che a cascata favorirebbe anche i meno abbienti (gocciolamento). In realtà, anche se la riduzione delle tasse può produrre più risparmi e investimenti, il risultato è un aumento straordinario delle diseguaglianze, per cui i ricchi stanno ancora meglio mentre i meno abbienti no. Tutto ciò è riscontrabile nelle statistiche economiche dei paesi più avanzati, USA in testa. Anche se abbiamo avuto più disponibilità di beni sottocosto, per effetto della globalizzazione, ciò è stato più che compensato da una crescita della diseguaglianza soprattutto nei servizi cruciali (istruzione, sanità, ecc.). La crescita della diseguaglianza ha anche eroso molto della possibilità di uguaglianza delle opportunità, e una società più egualitaria, secondo moltissimi studi, funziona meglio.
La idea sottostante le privatizzazioni è che il privato è più efficiente dello Stato nella gestione e allocazione degli investimenti, idee iniziate da Friedman e dalla teoria della Public Choice. Inoltre questa idea rappresenta un indubbio vantaggio  per il sistema finanziario. mentre per i governi ha  rappresentato un modo per risolvere i problemi di finanza pubblica. L'idea dele privatizzazioni si sviluppa sotto la Thatcher nel Regno Unito per diffondersi a macchia d'olio. I risultati non soso stati confortanti, basti vedere, ad esempio, la privatizzazione delle ferrovie britanniche o da noi la privatizzazione delle telecomunicazioni e delle autostrade per capire che non sono state sempre un successo. Le privatizzazioni possono funzionare  se non si tratta soprattutto di monopoli naturali e in generale se il ricavato dal governo eccede il valore del flusso dei ricavi futuri, cosa che normalmente viene sottostimata a priori con in genere maggiori vantaggi per i privati che non per lo Stato. 
Nelle conclusioni al libro l'autore ribadisce le sue posizioni, i cicli economici non possono esser domati e non bisogna per  tracotanza ignorare le lezioni del passato. Lo Stato, con il suo welfare, ha un ruolo cruciale nella gestione del rischio e aiuta alla stabilizzazione dell'economia, il rischio lasciato agli individui porta alla diseguaglianza. 
In sintesi le sue raccomandazioni per una futura e migliore teoria economica sono:
  •  più realismo e meno rigidità;
  • maggiore focus sulla diseguaglianza e meno sulla efficienza;
  • più umiltà e meno tracotanza.
Il libro è molto approfondito e molto interessante. Su ogni argomento traccia la storia delle idee dalla nascita alle sue confutazioni e ai suoi fallimenti con grande dovizia di informazioni. Richiede comunque, per essere ben compreso, di una preparazione di base (che può darvi il mio libro). Nella edizione italiana ci sono per ogni capitolo dei capitoli di spiegazione degli economisti Barucci e Messori. Tali interventi sono finalizzati ad approfondire i temi ma contengono comunque le idee dei due economisti italiani, per quanto utili trovo che l'aggiunta dei capitoli appesantisca la lettura del libro piuttosto che facilitarla.

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