domenica 30 dicembre 2018

David Van Reybrouck Contro le elezioni-Perchè votare non è più democratico

La democrazia nei paesi occidentali è in crisi, una crisi di legittimità e di efficienza. La prima significa il venir meno del consenso, la seconda la difficoltà della capacità di azione, in sintesi crisi che l'autore definisce "stanchezza democratica".
Quali sono le diagnosi di tale crisi. La prima, quella populista, è che sia colpa dei politici: parassiti e approfittatori. La seconda diagnosi, quella tecnocratica, indica che il problema è la complessità del processo decisionale democratico servono, quindi, tecnocrati e specialisti che non devono preoccuparsi delle elezioni e adottare anche misure impopolari. Un altra diagnosi critica la democrazia rappresentativa, la soluzione sarebbe la democrazia diretta. 
I tre rimedi o soluzioni appaiono all'autore tutti pericolosi, il populismo è pericoloso per la minoranza, la tecnocrazia è pericolosa per le maggioranza, l'anti-parlamentarismo è pericoloso per la libertà.  L'autore propone una diversa diagnosi, il problema potrebbe essere la democrazia fondata sulle elezioni, sotto l'effetto della isteria collettiva dei media commerciali, dei social media e dei partiti politici la febbre elettorale è diventata permanente con gravi conseguenze sul funzionamento della democrazia.  L'errore sarebbe di aver ridotto la democrazia a una democrazia rappresentativa e la democrazia rappresentativa a delle elezioni.
In realtà, la riduzione della democrazia alle sole elezioni è una deriva recente, infatti nella democrazia greca si faceva ricorso molto estesamente al meccanismo del sorteggio, ripreso poi anche in altre realtà successive ( Venezia, Firenze, ecc.)
Il sistema elettivo deriva dalle rivoluzioni americane e francese, ma leggendo attentamente gli scritti dei padri fondatori della democrazia si percepisce che il sistema era si democratico per il diritto di voto, tra l'altro inizialmente limitato, ma sopratutto aristocratico per il suo reclutamento, tutti potevano votare ma i candidati erano sostanzialmente una élite. In questo modo la uguaglianza di chance politiche è stata limitata con una separazione piuttosto netta tra governanti e governati. In pratica le rivoluzioni hanno sostituito una aristocrazia non eletta con una scelta con votazione.
Se questo è il vero problema della democrazia bisogna rivedere il sistema democratico, alcuni tentativi sono stati fatti (Islanda, Irlanda, Canada) con assemblee di cittadini chiamati a fare delle proposte legislative, le assemblee hanno prodotto dei risultati positivi che in genere però sono stati in qualche modo boicottati dai partiti politici, quindi le esperienze sono solo parzialmente positive anche se siamo solo ai primi passi. Un altra applicazione potrebbe essere un sistema bi-rappresentativo con una camera eletta e una a sorteggio. 
Siamo solo all'inizio ma questa è la strada per l'autore che porta a diminuire la diffidenza tra governati e governati. Nel complesso un bel libro, ben documentato e controcorrente, che fa emergere i limiti e le difficoltà insite nel sistema attuale con una serie di proposte di cambiamento.

domenica 9 dicembre 2018

Tony Judt - Guasto è il mondo -Laterza


Tony Judt è un professore e intellettuale americano molto noto e con diverse pubblicazioni all’attivo.
Il libro parte con la constatazione che nel mondo di oggi c’è qualcosa di profondamente sbagliato avendo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse personale. Ma non è stato sempre così, nel dopoguerra sino agli anni 70 c’era invece un ampio consenso nella azione dello Stato e nelle politiche “socialdemocratiche”, cioè che le iniquità del capitalismo potessero essere stemperate dalla Stato con la garanzia di un benessere presente e futuro. Lo stato sociale e la tassazione progressiva non erano un tabù. La situazione si è però ribaltata a partire dagli anni ‘70 (la rivincita di Hayek vs Keynes), con un declino del senso di uno scopo condiviso e il primato dell’interesse individuale, cioè una inversione di rotta intellettuale. In parte è anche dovuto alle generazioni della protesta della fine degli anni 60, che hanno dato per scontate le conquiste acquisite con una battaglia di rivendicazioni individuali nei confronti dello Stato e della società. La caduta del comunismo ha poi sfilacciato tutta la massa di dottrine che aveva in qualche modo tenuto insieme la sinistra; senza più un riferimento culturale la sinistra ha finito per incorporare le dottrine liberiste che sono divenute dominanti.
Il problema è che se anche ci siamo liberati giustamente della tesi che lo Stato sia la soluzione migliore a qualunque problema ora dobbiamo liberarci della idea opposta cioè che lo Stato sia l’opzione peggiore. L’autore conclude, quindi, che bisogna in qualche modo recuperare una narrazione morale, con idee nuove in cui lo Stato rappresenti una istituzione intermedia primaria in grado di mediare tra cittadini insicuri e multinazionali e organismi internazionali non controllabili dai cittadini. Rimangono infatti troppi gli ambiti dove per perseguire i nostri interessi collettivi non basta fare quello che pensiamo sia meglio a livello individuale. Per fare ciò non dobbiamo per forza ripartire da zero ma il passato ancora ha qualcosa da insegnarci per costruire il futuro.
Un libro interessante per la capacità di analisi anche se in parte non del tutto nova, l’autore però non propone soluzioni concrete ma si limita a dare un messaggio di speranza.