giovedì 29 settembre 2016

Keynes, Schumpeter, Roegen

Oggi vorrei parlare di tre tra i i più grandi economisti del 20° secolo, due sicuramente noti il terzo purtroppo, a torto, meno noto. Di Keynes se ne parla troppo, spesso a sproposito. Keynes è in parte un grande innovatore, diciamo che ha creato la macroeconomia, ma le sue idee vengono da lontano. Riprende sostanzialmente l'idea della domanda effettiva di Malthus che polemizzava con Ricardo. Per Malthus si doveva prevedere una classe di persone, che pur non producendo, erano utili a creare con il loro reddito una domanda aggiuntiva per assicurare lo sbocco della offerta, contrariamente a Smith che non vedeva bene il lavoro improduttivo e a Say secondo cui l'offerta crea la domanda. Ricardo a dir il vero, per non parlare di Marx, si poneva anche il problema della meccanizzazione ovvero della evoluzione tecnologica che consente di risparmiare lavoro che  così facendo deprime la domanda. Diciamo che per tutto l'800 il problema rimane un poco sotto traccia, anche se si sono verificate crisi economiche. La grande crisi del '29 pone però in maniera drammatica il problema della disoccupazione e della crisi. Keynes rispolvera la critica a Say aggiungendo il problema monetario, ovvero che un economia moderna è anche una economia monetaria e finanziaria, se la situazione è di crisi la moneta tende ad essere tesaurizzata (trappola della liquidità) e gli investimenti privati scareseggiano, ergo l'unica soluzione è aumentare la spesa pubblica e possibilmente la distribuzione del reddito per rivitalizzare l'economia e mettere in moto il circolo virtuoso (meccanismo del moltiplicatore). Keynes viene accusato di essere troppo attento al breve periodo ( "sul lungo periodo siamo tutti morti" diceva). Schumpeter cambia prospettiva analizza il periodo lungo: teoria dei cicli; per lui l'elemento fondamentale della crescita è  la evoluzione tecnologica messa a frutto da audaci imprenditori. Anche Schumpeter mette in rilievo l'importanza della finanza e del credito per alimentare gli imprenditori innovatori. Le idee di Schumpeter le troviamo nelle teorie della crescita e sviluppo del dopoguerra (sintesi neoclassica), in particolare Solow, che conferma la importanza della innovazione tecnologica come motore di crescita. 
Tutto bene? Mica tanto, fintanto che la crescita tecnologica viene moderata, nel breve termine, da politiche keynesiane di redistribuzione del reddito, con tassazione progressiva, va tutto bene, ma quando le imprese assumono valenza sempre più extra nazionale crescono i profitti (sempre più sfuggenti al dominio dello Stato nazionale) e diminuiscono i redditi da lavoro (almeno nei paesi sviluppati). Al momento qualcosa ci guadagnano i paesi poveri, dove vengono esportate le lavorazioni, ma quando la tecnologia renderà non più conveniente produrre anche ai prezzi stracciati dei paesi poveri chi avrà il reddito per consumare la produzione? Quindi la intuizione di Schumpeter sulla innovazione teconolgica è importante, ma resta il problema della domanda e quindi della distribuzione del reddito, questa non è semplicemente una questione di legge di mercato, come sostengono i neoclassici, ma una questione di rapporti di forza tra classi (Marx). 
L'unica differenza è che oggi nessuno, dopo la fine della URSS e la transizione della Cina, crede più che il modello di pianificazione centralizzata possa funzionare nel lungo termine, per cui l'unica alterenativa ragionevole ad una concentrazione di ricchezza, che conduce alla stagnazione e alla rivolta sociale, ritorna ad essere la scelta keynesiana, ovviamente in salsa moderna e soprattutto evitando alcune storture. Per Keynes, infatti, il problema non era il capitalismo in se ne tanto meno gli "animal spirits", piuttosto i "rentiers" e la accumulazione sfrenata di ricchezza, ed inoltre una finanza incontrollata che produce bolle che si sgonfiano (Minsky). A tutto ciò aggiungiamo un altro tassello che riguarda il lunghissimo periodo: la crescita infinita in un mondo finito è un assurdità logica e termodinamica come diceva Roegen, la tecnologia ci può aiutare ma non può fare miracoli di fronte ad un uso  sconsiderato di risorse, a meno di non pensare di trovare qualche altra Terra da sfruttare nello spazio. Insomma la tecnologia non risolve tutti i problemi e il capitalismo lasciato a se stesso rischia di generare concentrazioni di ricchezza e dilapidazione di risorse, quindi serve anche intelligenza politica e istituzionale; purtroppo non possiamo fare a meno di governare i processi, con buona pace di quelli che sbandierano la capacità del mercato di autoregolarsi, vedi solo ultima crisi del 2008. 
Il futuro è aperto, spetta a noi cittadini di riprendere in mano la situazione e riappropriarci della nostra vita e della democrazia, che costantemente ci viene scippata dalle forze economiche, democrazia che significa scelta ponderata delle élite e soprattutto il loro controllo, che presuppone conoscenza e coscienza dei meccanismi economici, e inoltre impegno costante. 
Non esistono demiurghi che possano risolvere tutti i problemi, ma almeno cerchiamoci menti non del tutto impreparate (Trump) a guidarci, forse se ci guardiamo intorno ci saranno sempre nuovi Keynes (ma anche Schumpeter e Roegen) a indicarci la strada. 

venerdì 23 settembre 2016

Francesco Sylos Labini - Rischio e previsione – Laterza

Il libro che recensiamo oggi  è scritto da un fisico, figlio del noto economista Paolo Sylos Labini. 
Nella prima parte ci spiega come funziona la scienza e le sue regole nonché la divisione tra le previsioni prettamente scientifiche, fatte all’interno di una teoria scientifica, che sono indipendenti dal tempo e che devono essere verificate per poter corroborare la teoria stessa, e le previsioni  del tipo “meteorologico” ovvero previsioni mirate a fenomeni posti nel tempo futuro e quindi orientate a far prendere decisioni. Queste ultime previsioni, come quelle delle scienze sociali, sono profondamente diverse metodologicamente e sostanzialmente dalle prime, infatti non sono sempre guidate da un solido modello teorico e pertanto dovrebbero essere accompagnate da una stima del grado di incertezza. 
Nella seconda parte critica la scienza economica e certe sue deviazioni, in questa parte non ci sono comunque argomenti nuovi che non siano affrontati anche nei libri che ho già recensito e, in particolare, molte argomentazioni sono molto più approfondite in questo. Nell’ultima parte si dedica alla ricerca scientifica e alla critica sui sistemi di valutazione e anche di finanziamento dei progetti scientifici. Complessivamente è un libro scritto bene ma manca di spunti originali, inoltre non si capisce bene lo scopo e finalità del libro e gli argomenti appaiono non del tutto correlati, insomma sinceramente mi aspettavo qualcosa di più.

mercoledì 21 settembre 2016

La moneta

Oggi pubblico un estratto dal mio  libro: Le idee della economia.
Una definizione breve di moneta  potrebbe essere la seguente: «la moneta è ciò che usiamo per pagare le cose»[1]; ma  la  sua definizione più completa coincide con l’elenco delle sue funzioni che sono:
  •  strumento di pagamento, quindi mezzo di scambio e intermediario  nella compravendita di beni e servizi;
  • unità di conto, dunque  misura del valore;
  • riserva di valore, in altri termini un modo come mantenere la ricchezza.
Come è noto inizialmente gli scambi, in tempi remoti, avvenivano attraverso il baratto, questa modalità era palesemente poco efficiente e, quindi, ben presto venne la necessità di regolare gli scambi attraverso qualcosa che, successivamente, prese il nome di moneta[2].
Inizialmente come moneta furono utilizzate le cose più disparate: pietre, conchiglie, sale, capi di bestiame, tabacco, ecc.
Successivamente si diffuse l’uso dei metalli, le monete più antiche sino ad ora ritrovate risalgono a  fra la seconda metà del VII e gli inizi del VI sec. a.c., per la caratteristica principalmente di non essere deperibili.
Il passaggio ai metalli preziosi, oro e argento principalmente, segna l’inizio di quella che viene definita moneta merce, ovvero dotata di un valore intrinseco.
Anche l’utilizzo delle monete in metallo prezioso presenta alcuni problemi, alcuni pratici cioè legati al peso di grosse quantità di moneta e inoltre al rischio nel loro trasferimento, questo porta alla nascita delle banconote e anche di altri strumenti sostitutivi (ad esempio lettere di cambio).
Un altro aspetto legato alle monete in metalli preziosi e quello della disponibilità, abbondanza o scarsezza dei metalli in funzione, ad esempio, della scoperta di nuove miniere o all’esaurimento di quelle vecchie. L’eccesso di moneta se non accompagnato da uno sviluppo economico può infatti portare, come avevano capito anche i primi economisti, a spinte inflazionistiche (aumento dei prezzi); al contrario una mancanza di mezzi monetari può frenare lo sviluppo economico e portare viceversa a deflazione.
Con la comparsa delle banconote nasce in seguito la necessità che tale attività sia regolata, e che ci sia un legame tra la emissione di banconote e presenza di adeguate riserve d’oro. Quindi, la attività di emissione della banconote passa nel tempo dalle banche private ad una banca centrale, che diventa l’unica ad emettere banconote e tenuta ad avere una determinata quantità di riserve auree a copertura delle emissione di banconote.
Il sistema monetario divenne quindi il cosiddetto Gold Standard[3], nel quale il valore della moneta corrispondeva ad una determinata quantità di oro stabilita dalle autorità monetarie, senza necessità di una totale convertibilità tra banconote e riserve auree, dando così la possibilità di maggiore flessibilità monetaria all’interno, mentre rimane lo scambio di riserve per regolare le transazioni tra paesi.
Il  passaggio dalla moneta metallica, con valore intrinseco, alle banconote a corso legale garantite dallo Stato segna la evoluzione dalla moneta merce alla moneta segno, cioè ad una moneta fiduciaria basata sulla fiducia nell'emittente[4].
Il secondo dopoguerra si caratterizza, con gli accordi di Bretton-Woods, per la nascita del cosiddetto Gold Exchange Standard, in cui la moneta per gli scambi internazionali rimane il dollaro che è l’unico a poter essere convertito in oro.
Quindi il dollaro diviene il punto centrale ma anche dolente di tutto il sistema e la sua presunta convertibilità in oro termina, con decisione di R.Nixon nel 1971, lasciandoci in un sistema non ben definito.
Abbiamo parlato nel corso del libro dei concetti di moneta endogena o esogena, cioè se la offerta di moneta è creata e controllata solo dalla banca centrale o, se invece, non è creata anche dal sistema bancario e finanziario per esigenze della economia. Considerando che le banche private possono emettere prestiti o dare credito sulla base anche delle riserve dei depositi, ma che non sono vincolate a prestarli in rapporto 1 a 1 con i depositi (moltiplicatore dei depositi), è chiaro che anche loro sono in grado di generare moneta. Per i sostenitori della teoria della moneta endogena in realtà sono proprio i prestiti a creare la moneta e le banche, nel loro insieme, non sono quindi vincolate nel concedere prestiti dall’ammontare del denaro precedentemente depositato; pertanto la  banca centrale non è in grado di controllare direttamente la quantità di moneta, può solo fissare il tasso d’interesse al quale rifinanzia le banche ed è  tale tasso d’interesse che influisce “indirettamente” sulla offerta di moneta.
In pratica la moneta è oggi una forma di debito, un debito di tipo speciale che è accettato come mezzo di pagamento nella economia[5].
In particolare la cosiddetta massa monetaria (o moneta legale) viene suddivisa in alcune componenti, detti aggregati monetari. Questi aggregati sono in ordine decrescente di liquidità :  
  • M0 insieme di  tutte le banconote e le monete, dette moneta legale, e le riserve obbligatorie delle banche presso la banca centrale che costituiscono la cosiddetta base monetaria;
  • M1 che comprende oltra alle banconote circolanti anche i depositi di conto corrente e postali (trasferibili con assegno);
  • M2 che oltre a ricomprendere quanto detto per M1 comprende anche i depositi di conto corrente e postali più vincolati dei precedenti;
  • ·M3 che comprende ulteriormente altri titoli a breve come le obbligazioni e i titoli di stato a breve termine.
Abbiamo parlato spesso di offerta e domanda di moneta, la prima si definisce come la moneta circolante in un sistema economico, mentre la domanda di moneta è quella che i privati (cittadini e aziende) vogliono detenere per vari motivi: speculazione, transazioni e precauzione.
Infine concludiamo con le politiche monetarie: lo scopo delle politiche monetarie è di  controllare la quantità  di moneta in generale, questo avviene da parte della autorità monetaria di un paese attraverso, principalmente, le cosiddette operazioni di mercato aperto, cioè la vendita
o acquisto da parte della banca centrale di titoli. Acquistando titoli, titoli di Stato, per la maggior parte, la banca centrale ottiene due effetti: da una parte riduce la quantità di moneta in circolazione; dall’altra, acquistando titoli, ne aumenta il valore (aumento della domanda) e per la relazione inversa tra valore dei titoli e interesse fa quindi diminuire  il tasso di interesse. Quando queste operazioni avvengono su larga scala e i titoli interessati sono anche altri titoli, come ad esempio obbligazioni private emesse dalle aziende, queste operazioni prendono il nome di quantitative easing.
Un altro campo di azione  della banca centrale è quello di modificare, in rialzo o in ribasso,  il valore  del tasso ufficiale di sconto, che determina i tassi di interesse applicati dalle banche per i prestiti.
Infine, un altro modo per controllare la emissione di moneta è attraverso il sistema di regolamentazione delle banche, ad esempio agendo sulla cosiddetta  riserva frazionaria, che è la percentuale dei depositi bancari che per legge la banca è tenuta a detenere, sotto forma di contanti o di attività facilmente liquidabili. Tale riserva determina quanto un istituto di credito  può erogare per i prestiti e, quindi, un aumento o una sua diminuzione possono variare l’offerta di credito e l’offerta di moneta.
La teoria economica ci dice, in generale, che la banca centrale dovrebbe stabilire la politica monetaria, espansiva o recessiva, in funzione dello stato dell’economia. Ad esempio in una fase di recessione dovrebbe aumentare la quantità di moneta è ridurre il tasso di sconto per favorire la ripresa, mentre in una fase espansiva dovrebbe fare il contrario per frenare il possibile rischio di spirale inflazionistica. Questo vale in generale, ci sono comunque molte divergenze sulle modalità e sulla importanza di tali politiche che variano a seconda delle correnti di pensiero: i monetaristi propendono per un controllo stretto della politica monetaria con minori interventi dello Stato; mentre le correnti keynesiane e post-keynesiane credono che non si possa far a meno di accompagnare tali politiche con un maggior intervento statale anche sul fronte della spesa pubblica o politiche fiscali.






[1] A. Lerner, Money as a creature of the State, The American Economic Review, Vol. 37, No. 2, 1947, p. 313.
[2] Il nome pecunia viene da “pecus” (pecora), a rappresentare uno dei mezzi con cui potevano avvenire gli scambi, il nome moneta verrebbe, secondo alcune teorie,  dalla dea romana Giunone Moneta, dove per moneta si intende l’aggettivo di “ammonitrice” dato alla dea, in quanto la zecca sarebbe stata nei pressi o annessa al suo tempio.
[3] In realtà si distinguono tre diversi sistemi aurei: nel primo l'oro viene usato direttamente come moneta (circolazione aurea), nel secondo viene usata cartamoneta totalmente convertibile in oro, infine, nel terzo caso, le banconote sono convertibili solo parzialmente, risultando il valore della quantità di banconote emessa un multiplo del valore dell'oro posseduta dallo stato (circolazione cartacea convertibile parzialmente in oro).
[4] Tale tipo di moneta viene definita “fiat”, cioè  una moneta stabilita da la regolamentazione del governo o della legge.
[5] Vedi: M. McLeay, A. Radia, R. Thomas, Money in the modern economy: an introduction, Quarterly Bulletin 2014 Q1, Bank Of England.

venerdì 2 settembre 2016

Equilibrio dei poteri

La teoria tradizionale dello Stato moderno, originata dalle idee di Montesquiez, si basa sull’equilibrio dei poteri ovvero: potere esecutivo, legislativo e giudiziario (Nel tempo si è parlato di altri poteri, quello della carta stampata e della televisione ma in realtà sono poteri esterni allo Stato). Si tratta quindi sostanzialmente di una teoria dello Stato e del suo funzionamento. 
Quello su cui invece vorrei soffermarmi oggi è sui “poteri” che in genere agiscono all’interno di una nazione. Per ragione di sintesi i poteri principali che ritengo agiscano sono tre. Il primo è il potere economico (che per semplicità chiameremo di mercato) cioè il potere che deriva dalla disponibilità di grossi mezzi economici (ricchezza o proprietà di assets di vario tipo industriali, finanziari, ecc..) da parte di singoli o di gruppi economici. Il secondo è il potere dello Stato in virtù della forza che gli dà la legge e le sue istituzioni. Infine il potere del popolo, che chiameremo democrazia (appunto letteralmente governo del popolo). Su questo ultimo dobbiamo fare alcune precisazioni fuori da ogni retorica, il popolo o meglio i cittadini hanno, almeno in teoria, la possibilità di scegliere chi li governa, nei casi di governi totalitari in genere l’unico mezzo è la rivoluzione, negli Stati più evoluti ciò avviene tramite procedure elettorali e democratiche (Sulle differenze tra i vari tipi di democrazia vedi articolo di Rodrik). 
La legislazione, in particolare la Costituzione, regola oltre che i rapporti tra i poteri dello Stato anche le modalità con cui funziona la democrazia e viene regolato anche il potere economico, ma nei fatti i rapporti di forza tra i tre poteri: mercato, Stato e democrazia, dipendono dalle condizioni, storiche e sociali della nazione e anche dalla situazione internazionale. Quando predomina lo Stato siamo in genere in un regime totalitario, dove governano delle oligarchie politiche che sono spesso anche economiche; quando è molto forte la democrazia c’è il rischio della cosiddetta dittatura della maggioranza o di governi populisti; quando sono forti le élite economiche queste riescono a indirizzare e dominare il potere politico a loro favore riducendo di fatto il potere della democrazia. 
Storicamente, se vediamo in particolare mondo occidentale, hanno inizialmente prevalso le élite politico-militari, con classi sociali piuttosto definite, che hanno assunto spesso anche connotazioni religiose o si sono avvalse della religione per giustificare la loro leadership. Con lo sviluppo dei commerci e in seguito della industrializzazione hanno guadagnato un maggior ruolo le élite economiche che, in virtù della esistenza di sistemi scarsamente democratici, potevano imporre le loro condizioni sul resto della cittadinanza. Lo sviluppo economico e la industrializzazione hanno accresciuto la possibilità di azione collettiva da parte dei cittadini che, con il tempo e con le lotte, sono riusciti a conquistare spazi maggiori in politica con un espansione della democrazia. Anche se regimi totalitari o scarsamente democratici possono condurre a situazioni di un certo sviluppo economico, la realtà mostra che attualmente le nazioni più sviluppate economicamente sono quelle che hanno un certo equilibrio tra i tre poteri, cioè una democrazia forte con uno Stato efficiente e ben gestito e con un mercato sviluppato. Quindi una società funziona bene quando i tre poteri sono forti e si limitano a vicenda, evitando così il prevalere dell’uno sull’altro, perché il mercato consente, in genere, di aumentare lo sviluppo economico ma, senza uno Stato forte che lo regoli, il mercato tende a formare concentrazioni di potere e monopoli che diminuiscono le possibilità di crescita e sviluppo; d’altra parte uno Stato troppo forte potrebbe distorcere la concorrenza e favorire alcune categorie minando la concorrenza che è uno dei meccanismi di funzionamento del mercato; infine la democrazia, intesa come sistema di controllo da parte dei cittadini, dovrebbe, idealmente, consentire di redistribuire la ricchezza e i carichi fiscali a vantaggio della maggioranza dei cittadini e del benessere generale. 
Come abbiamo detto nel tempo, soprattutto in occidente, si è consolidato lo sviluppo di Stati democratici con economie di mercato che hanno consentito sia lo sviluppo economico e materiale e sia un miglioramento della legislazione sociale e di difesa dei diritti, ovviamente con formule diverse e con gradi di sviluppo diversi. La situazione negli ultimi anni presenta degli aspetti contrastanti, infatti alcuni paesi, ad esempio quelli dell’est europeo, si sono liberati dei vecchi regimi totalitari e si sono avviati verso un percorso democratico, anche altri paesi, a varie latitudini, si sono incamminati verso regimi più democratici o con maggiori libertà che in passato, con situazioni comunque che non possiamo definire democratiche (ad esempio la Cina). Nei paesi occidentali la situazione è invece più complessa e controversa, grazie alla globalizzazione è aumentata la forza delle imprese e della finanza internazionale, che potendo giocare la partita a livello internazionale possono incrementare i profitti giocando sulle differenze di costi e di regolamentazione (arbitraggi) tra i vari paesi, avendo meno limiti e condizionamenti dagli Stati e democrazie nazionali; quindi in questi paesi, mentre questi soggetti sono meno condizionati e vincolati, di fatto hanno perso potere lo Stato e la democrazia, con un incremento delle diseguaglianze, una diminuzione del welfare state e un aumento della insicurezza e della incertezza delle popolazioni. 
Se vediamo le società occidentali in crisi economicamente e anche perché sono venuti meno i fenomeni di riequilibrio tra i poteri di cui abbiamo parlato, ed è questo il motivo di quella che qualcuno chiama stagnazione secolare ma, in realtà, si tratta di un arretramento del ruolo dello Stato e della democrazia, a vantaggio del mercato, che a sua volta genera una crisi economica e sociale (*).

(*) vedi anche La grande trasformazione di K.Polanyi