Il libro che recensiamo oggi è Scegliere i vincitori, salvare i perdenti di Franco Debenedetti, fratello del più noto Carlo. E un libro molto ricco di argomenti, forse anche troppo. In larga parte è la storia della cosiddetta “politica industriale” in Italia, soprattutto dal dopoguerra in poi, dove l’autore è stato protagonista essendo stato manager anche dell’Olivetti e poi anche senatore per alcune legislature. Questa parte è la più interessante con i retroscena, ovviamente di parte, su molte delle vicende che riguardano la industria, e non solo, di Stato. Ricostruisce quindi la storia degli interventi statali per poi descrivere il successivo periodo, quello delle privatizzazioni, con l’abbandono di molte attività da parte dello Stato. Il suo giudizio è chiaro, per lui è “insana” e “ideologica” la natura della politica industriale. Che lo Stato si sia occupato a lungo di attività non proprie, ad esempio auto e alimentare, e che gli interventi della Cassa per il Mezzogiorno siano stati in larga parte sprechi di denaro sono perfettamente d’accordo. Debenedetti non nasconde di essere “dall’altra parte del cielo” ovvero il mercato, e che la eccessiva invadenza dello Stato abbia inibito la iniziativa privata in molte occasioni, anche su questo sono perfettamente d’accordo. Quello che non condivido è la sua evidenziazione dei fallimenti dello Stato mentre sorvola sui fallimenti di mercato.
Che la nostra politica industriale, soprattutto da un certo punto in poi, sia stata negativa è abbastanza evidente, mi pare anche evidente che comunque il nostro capitalismo è stato abbastanza asfittico sia per mancanza di capitali (capitalismo straccione) e sia per il blocco imposto da e per conto dei cosiddetti “salotti buoni”. Quello che non dice è che tutte le nazioni sviluppate hanno fatto e fanno “politica industriale” (intendendo in senso lato), e l’intervento dello Stato è comunque molto presente in tutte. Sicuramente ci sono modi diversi di concepire la politica industriale, ma nessuna nazione è stata completamente ferma su questo fronte. Nel libro cita l’esempio della Germania, che comunque fa una sua politica industriale, ma stranamente non cita la Francia molto interventista, che tra l’alto ha difeso strenuamente le sue imprese quando qualcuno (come il fratello Carlo) ha tentato delle incursioni oltralpe. Poi va considerato che il nostro paese è il secondo per livello industriale in Europa, possibile che questo non sia anche dovuto ad alcune iniziative dello Stato vista appunto la sua presenza? Non tutte le esperienze statali sono state infatti negative, molto è dipeso dagli uomini, ad esempio Mattei all’Eni, e anche l’IRI ha avuto alcune eccellenze (ad esempio le telecomunicazioni, dove per inciso i privati non avevano inizialmente voluto entrare).
Non parliamo delle privatizzazioni, che in alcuni casi non sono state per niente un successo, con situazioni di evidente distruzione di valore o, in alcuni casi, di regali di monopoli naturali ai privati. Insomma il quadro che fa mi pare condivisibile solo in parte, inoltre al suo posto non mi avventurerei in affermazioni come: “la capacità del mercato di autoregolarsi sembra ancora meritevole di fiducia”; infatti, oltre a non essere suffragata da nessuna teoria economica, basterebbe ricordare il disastro combinato dei mercati lasciati a se stessi con l’ultima crisi per non essere così sicuri che si sappiano autoregolare.
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