martedì 28 giugno 2016

Brexit

Non posso non aggiungermi anche io ai commenti sul referendum sull'uscita dalla Unione Europea della Gran Bretagna. Ovviamente il risultato è stato insapettatato, anche se comunque se avesse vinto il "remain" con poco scarto non poteva non essere un segnale importante.  Diciamo che non mi spello le mani dalla gioia ne mi strappo i capelli dalla testa per disperazione, sinceramente se adesso i mercati si agitano dovrebbe preoccuparci meno del fatto che i cittadini sono da anni "agitati" con l'Europa. Infatti il problema è che per troppi anni sono state dimenticate le esigenze  dei cittadini per seguire scelte dettate dalle "cosiddette" élite; ora queste scelte non mi sono sembrate troppo intelligenti o dettate da superiori visioni, anzi sono state fatte scelte contrarie ad ogni logica economica oltre che sociale, tanto che poi si è dovuto ammettere che forse erano sbagliate. Nel frattempo si sono combinati disastri: dalla crisi greca, dove si è ridotto un paese già messo male alla fame e senza prospettive di crescita, ad una minore prosperità adottando politiche di austerità quando servivano politiche espansive, cose che conosce bene anche un universitario del primo anno. Insomma un errore e un orrore continuato che ha portato l'Europa al ristagno, un gran massa di persone alla povertà, alla indigenza e alla disoccupazione. Se questo è il quadro a chi dobbiamo dare la colpa? Ai populismi, naturale conseguenza o alle scelte di chi è al comando? Detto tutto ciò adesso l'Europa è in crisi, anche se le conseguenze disastrose che sono state pronosticate sono tutte balle, fra poco finita la buriana si tornerà a una quasi normalità e i mercati torneranno a valori normali. La parola crisi nel suo significato originale etimologico significa valutare/giudicare  quindi un accezione positiva, pertanto se i nostri politici europei sapessero valutare e giudicare bene potrebbe essere che la Brexit assuma un effetto tutto sommato positivo. La domanda è sarà così? Visto il livello di alcuni personaggi e alcuni commenti a caldo direi di no, mi sono sembrate reazioni stizzite piuttosto che razionali. Quindi a questo punto o si verifica un rinsavimento della politica europea oppure l'esito inevitabile è il dissolvimento dell'Unione Europea e dell'euro. Per alcuni questa è la situazione auspicabile, io continuo a sperare che invece si imbocchi un altra strada ovvero, attesi gli errori del passato, si passi ad una costruzione istituzionale dell'Europa che sia più funzionale e per questo anche più democratica e solidale. Sono convinto che il futuro è aperto, tutto può succedere anche se il recente passato ci induce da essere pessimisti. 

Franco Debenedetti - Scegliere i vincitori, salvare i perdenti - Marsilio editore

Il libro che recensiamo oggi è Scegliere i vincitori, salvare i perdenti di Franco Debenedetti, fratello del più noto Carlo. E un libro molto ricco di argomenti, forse anche troppo. In larga parte è la storia della cosiddetta “politica industriale” in Italia, soprattutto dal dopoguerra in poi, dove l’autore è stato protagonista essendo stato manager anche dell’Olivetti e poi anche senatore per alcune legislature. Questa parte è la più interessante con i retroscena, ovviamente di parte, su molte delle vicende che riguardano la industria, e non solo, di Stato. Ricostruisce quindi la storia degli interventi statali per poi descrivere il successivo periodo, quello delle privatizzazioni, con l’abbandono di molte attività da parte dello Stato. Il suo giudizio è chiaro, per lui è “insana” e “ideologica” la natura della politica industriale. Che lo Stato si sia occupato a lungo di attività non proprie, ad esempio auto e alimentare, e che gli interventi della Cassa per il Mezzogiorno siano stati in larga parte sprechi di denaro sono perfettamente d’accordo. Debenedetti non nasconde di essere “dall’altra parte del cielo” ovvero il mercato, e che la eccessiva invadenza dello Stato abbia inibito la iniziativa privata in molte occasioni, anche su questo sono perfettamente d’accordo. Quello che non condivido è la sua evidenziazione dei fallimenti dello Stato mentre sorvola sui fallimenti di mercato.
Che la nostra politica industriale, soprattutto da un certo punto in poi, sia stata negativa è abbastanza evidente, mi pare anche evidente che comunque il nostro capitalismo è stato abbastanza asfittico sia per mancanza di capitali (capitalismo straccione) e sia per il blocco imposto da e per conto dei cosiddetti “salotti buoni”. Quello che non dice è che tutte le nazioni sviluppate hanno fatto e fanno “politica industriale” (intendendo in senso lato), e l’intervento dello Stato è comunque molto presente in tutte. Sicuramente ci sono modi diversi di concepire la politica industriale, ma nessuna nazione è stata completamente ferma su questo fronte. Nel libro cita l’esempio della Germania, che comunque fa una sua politica industriale, ma stranamente non cita la Francia molto interventista, che tra l’alto ha difeso strenuamente le sue imprese quando qualcuno (come il fratello Carlo) ha tentato delle incursioni oltralpe. Poi va considerato che il nostro paese è il secondo per livello industriale in Europa, possibile che questo non sia anche dovuto ad alcune iniziative dello Stato vista appunto la sua presenza? Non tutte le esperienze statali sono state infatti negative, molto è dipeso dagli uomini, ad esempio Mattei all’Eni, e anche l’IRI ha avuto alcune eccellenze (ad esempio le telecomunicazioni, dove per inciso i privati non avevano inizialmente voluto entrare).
Non parliamo delle privatizzazioni, che in alcuni casi non sono state per niente  un successo, con situazioni di evidente distruzione di valore o, in alcuni casi, di regali di monopoli naturali ai privati. Insomma il quadro che fa mi pare condivisibile solo in parte, inoltre al suo posto non mi avventurerei in affermazioni come: “la capacità del mercato di autoregolarsi sembra ancora meritevole di fiducia”; infatti, oltre a non essere suffragata da nessuna teoria economica, basterebbe ricordare il disastro combinato dei mercati lasciati a se stessi con l’ultima crisi per non essere così sicuri che si sappiano autoregolare.

mercoledì 15 giugno 2016

Prima vennero.... versione aggiornata del sermone del pastore Martin Niemöller

Oggi riprendo un pezzo famoso del pastore Martin Niemoller, e usato anche  da Bertlot Brecht, sulla innattività contro l'ascesa del nazismo, adattato alla inattività e silenzio di fronte a questa crisi economica, colpa anche della nostra acquiescienza.

"Prima di tutto vennero licenziati i giovani ma non dissi nulla perchè erano precari;

Poi licenziarono gli operai e stetti zitto perchè tanto erano sindacalizzati;
Poi licenziarono gli statali e fui contento perchè erano tutti fannulloni;
Poi licenziarono me e non c'era rimasto nessuno a protestare."

giovedì 2 giugno 2016

R. H. Thaler, C. R. Sunstein - La spinta gentile

I due autori del libro sono rispettivamente professore di Economia e Scienza del comportamento (Thaler) e di legge alla Harvard School (Sustein). All'inizio del libro spiegano qual è la loro filosofia: "paternalismo libertario", cioè lasciare liberi gli individui di scegliere, ma indirizzarli al meglio per migliorarne le condizioni di vita nelle scelte più complesse. Infatti, per gli autori mentre i cosiddetti "econi" della scienza economica sono individui perfettamente razionali e in grado di effettuare le scelte migliori, gli "umani" sono soggetti ad errori come ci insegna la scienza comportamentale. I primi reagiscono solo agli incentivi mentre i secondi sono influenzati anche dai pungoli (o spinte). Nella prima parte ci ricordano quali sono i tipici errori di noi umani, ad esempio:
  • eccessi di ottimismo che espongono al rischio;
  • tendenza a prediligere la situazione in cui vivono o avversione alle perdite; 
  • prendere decisioni in modo passivo e incurante;
che possono distorcere le nostre scelte.
Pertanto se si vuole indirizzare le scelte, soprattutto nelle questioni complesse e insolite, gli "architetti delle scelte" devono scegliere i pungoli più adeguati. Una buona architettura delle scelte deve aiutare le persone ad aumentare la capacità di comprendere le decisioni e di scegliere le opzioni.
Nella seconda parte del libro illustrano esempi di applicazione di queste idee e di quali potrebbero essere le soluzioni in vari ambiti: le  scelte finanziarie, la scelta del fondo pensionistico o sanitario sino ad arrivare al matrimonio. 
L'architettura delle scelte è comunque invetabile, i pungoli sono ovunque, e caratteristiche apparentemente trascurabili delle situazioni sociali possono avere un effetto sostanziale sul comportamento individuale.
Pertanto concludono: 
"La complessità della vita moderna e il ritmo vertiginoso del progresso tecnologico sconsigliano ordini amministrativi rigidi o un approccio dogmatico al lasissez-faire. I nuovi sviluppi dovrebbero rafforzare, al tempo stesso, un sano impegno a difendere la liberta di scelta e gli argomenti a favore di una spinta gentile".
 Un libro molto piacevole e ben scritto, l'unico difetto è che gli esempi sono troppo legati agli Stati Uniti.

mercoledì 1 giugno 2016

Il difficile equilibrio tra mercato, Stato e democrazia


Qual'è la situazione più favorevole per il benessere e sviluppo di una nazione? Domanda difficile a cui oggi cercherò di rispondere. 
La storia ci ha mostrato che le nazioni che sono riuscite a progredire in termini di sviluppo economico e di benessere, per la maggioranza della popolazione, sono quelle che hanno saputo coniugare il mercato con lo Stato per mezzo della democrazia, ovvero a raggiungere un delicato equilibrio tra questi tre elementi. In altre parole ancora quelle società che sono riuscite a contemperare la esigenza della libertà individuale e di impresa, con la necessità di salvaguardare il benessere complessivo della società
Ma andiamo con ordine. I tentativi di società totalitarie di traguardare obiettivi di crescita sostenuta ed un livello di reddito pro capite elevato sono miseramente falliti. Non nego che una società non democratica possa incrementare, nel breve, il benessere di una società e realizzare un primo grado di sviluppo, i fatti dimostrano che nel lungo periodo non ci riescono. Alcuni esempi: il sistema della ex URSS e anche la Cina hanno consentito di portare nazioni prevalentemente agricole a società industrializzate, con elevati costi sociali. Raggiunto un certo stadio non sono comunque riuscite  ad estendere i benefici a tutta la popolazione e la crescita è rimasta limitata in termini di PIL; infatti la ex Urss si è dissolta mentre la Cina, pur rimanendo un regime centralizzato, sta evolvendo verso un sistema misto, dove comunque c'è una certa libertà di impresa e di localizzazione delle scelte, anche se non sappiamo dove condurrà questo percorso. Ho citato sistemi totalitari marxisti, ma se prendiamo la Spagna franchista mi sembra evidente che l'economia ha cominciato a crescere in maniera significativa da quando si è avviata alla democrazia. 
D'altra parte, le nazioni ove generalmente si è avuto più sviluppo e godono di un maggior PIL pro capite sono quelle che hanno implementato la democrazia con un economia di mercato, con gradi diversi di intervento dello Stato nell'economia, ma comunque con uno Stato importante (Negli stessi Stati Uniti non si può far finta di negare il ruolo dello Stato sia nelle spese militari, con le sue ricadute sulle imprese e la tecnologia, sia nella ricerca di base, ecc.). 
Il problema è che questo equilibrio non è facile da raggiungere e, come tutti gli equilibri, nel tempo è difficile mantenerlo perché cambiano le condizioni. Se l'equilibrio tende, come sta succedendo negli ultimi decenni in quasi tutto l'occidente, dalla parte del mercato la democrazia si indebolisce. Infatti l'aumento della globalizzazione ha reso più deboli i lavoratori e le organizzazioni sindacali, ricattati dalle minacce di delocalizzazioni e dal "dumping" salariale dei paesi in via di sviluppo, con conseguente diminuzione della quota lavoro sul totale del reddito e una sempre maggiore diseguaglianza di reddito e ricchezza. Inoltre, visto che uno dei ruoli più importanti dello Stato è quello di regolare il mercato, quello che succede è che le forze economiche e finanziarie riescono a condizionare le regole a loro favore, portando a un "capitalismo truccato", dove le redistribuzioni di ricchezza non avvengano dall'alto al basso ma viceversa. 
Gli Stati nazionali, che avevano svolto il ruolo di mediazione tra le forze sociali, hanno visto ridotte le possibilità di agire, anche qui minacciate dalla finanza internazionale e globalizzata che stabilisce le regole, pena il rischio di mettere in crisi il paese. Viceversa negli Stati dove il ruolo dello Stato è troppo forte, stati totalitari o di tipo peronista/populista, la democrazia è imbrigliata e anche  la crescita dell'economia è limitata e il benessere non è diffuso e in mano alle oligarchie. 
In ogni caso, come si vede, non è facile stabilire un equilibrio e mantenerlo. Una delle prime cose da ammettere è che sostenere che il mercato si autoregola è un pericoloso "mito", come dice Stiglitz: "Il capitalismo può essere forse il miglior sistema economico inventato finora dall’uomo, ma nessuno ha mai detto che avrebbe creato stabilità". 
Un altro mito da sfatare è che il libero commercio sia sempre positivo, le teorie del commercio internazionale ci dicono che ci sono vincitori e vinti e, se guardiamo alla  storia, le nazioni sviluppate sono state protezioniste a lungo (vedi post su Cattivi Sammaritani). Per quanto riguarda la democrazia, che non è retoricamente il "governo del popolo", ma propriamente un metodo, cioè il modo con cui, tramite le elezioni, gli elettori possono scegliere e cambiare chi governa. Pertanto è importante la possibilità degli elettori di essere informati e consapevoli e, inoltre, è necessario un sistema istituzionale adeguato ma che sia sempre in grado di adattarsi ai mutamenti sociali, economici e anche tecnologici. Quindi una delle condizioni della democrazia è la crescita culturale di un paese, tanto più i cittadini sono capaci di comprendere i difficili processi di una democrazia e quanto più divengono consapevoli dell'importanza di essere informati e partecipi. Altro punto dolente di alcune democrazie è l'informazione, quanto meno l'informazione è libera e indipendente tanto peggio  è per la democrazia; su questo punto in Italia non siamo messi benissimo con la carta stampata spesso soggetta a potentati economici e la informazione televisiva sotto il controllo del potere politico di turno.  
La democrazia quindi non è un punto di arrivo, ma è un costante lavoro di adattamento alla evoluzione della società e richiede un costante impegno da parte dei cittadini di controllare ed essere vigili. (Sul tema vedi anche il post su Perchè le nazioni falliscono)