venerdì 20 novembre 2015

Le idee dell'economia: la nascita della economia classica-Adam Smith

Adam Smith (1723-1790) viene generalmente considerato il primo degli economisti classici e anche, da molti,  il fondatore della scienza economica. In realtà molte delle sue idee, se non tutte secondo alcuni, sono rilevabili  negli autori precedenti. Sicuramente la sua peculiarità consiste nell’averle inserite in un quadro organico e sistematico all’interno del suo libro più famoso: La ricchezza delle nazioni[1]. Questo è dovuto, almeno in buona parte, al fatto che è il primo economista accademico, ha infatti ricoperto per molti anni la cattedra di filosofia morale a Glasgow, al contrario dei predecessori che erano per la maggior parte uomini dediti a qualche attività pratica.
Il suo pensiero è influenzato indubbiamente dall’Illuminismo scozzese, in particolare da Hume. Adam Smith fa una personale sintesi di tali influenze che, nella complessità delle motivazioni all’origine dei comportamenti umani, lo porta da un lato a individuare come movente principale l’interesse personale: «non è dalla generosità del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi».[2]
D’altra parte, questo non è per Smith l’unico aspetto, infatti nel comportamento umano vede anche il desiderio di ricevere l’approvazione altrui (“principio di simpatia”), concetti che troviamo esposti nel suo altro grande libro: Teoria dei sentimenti morali.[3] In qualche modo, questo atteggiamento lo fa essere allo stesso tempo  realista, come vedremo sulla situazione sociale, ma anche ottimista sugli sviluppi della società.
Adam Smith, nel suo libro La ricchezza delle Nazioni, si propone di identificare le cause della ricchezza delle nazioni, ovvero quale sia sostanzialmente il “motore” dell’economia, individuandolo nella industria. In questo si distingue dalle due correnti economiche precedenti: il mercantilismo, che poneva al centro dell’attività economica il commercio e dei fisiocratici  per i quali, invece, era l’agricoltura.
Come elemento principale dello sviluppo economico, e quindi industriale, Smith pone la divisione del lavoro, ovvero una migliore organizzazione del lavoro che prevedendo  la specializzazione dei compiti consente, a parità di altre condizioni, di aumentare la produttività[4] del lavoro, definibile come quantità di prodotto per singolo lavoratore od ora lavorata.
L’aumento della produzione (offerta) ha come conseguenza la necessità della ricerca di mercati di sbocco (domanda). Questo spiega il suo atteggiamento a favore del libero commercio (libero scambio) e, quindi, favorevole all’abolizione dei dazi in contrasto con le politiche mercantilistiche.
Per Smith si crea, in questo modo, un meccanismo virtuoso che porta ad un aumento del benessere generale. Anche  in questo si differenzia dai mercantilisti, che avevano posto come fine economico l’aumento della potenza dello Stato, mentre per Smith  il fine è quello di elevare quello che, in termini moderni, è il reddito pro capite.
La posizione di Smith in merito al ruolo dello Stato, in opposizione al mercantilismo, è che allo Stato competa comunque  un ruolo importante:  giustizia, difesa, istruzione, lavori pubblici, ecc…, ma che  dall’altra parte, nel campo economico, il suo intervento debba  essere limitato (laissez-faire), lasciando che le dinamiche del libero mercato  (la cosiddetta “mano invisibile”) portino alla migliore allocazione delle risorse.
Dal punto di vista sociale Smith suddivide le classi sociali in tre: proprietari terrieri, capitalisti e lavoratori,  a cui corrispondono rispettivamente  le tre categorie di reddito: rendita, profitto e salario. La sua posizione, pur critica su qualche aspetto,  è sostanzialmente di accettazione della situazione sociale al  contrario di Marx.
Non possiamo a questo punto non parlare della teoria del valore, argomento complesso su cui non ci potremo soffermare in dettaglio, in quanto è uno degli aspetti più dibattuti dell’economia classica.
Prima di tutto Smith chiarisce la differenza tra valore d’uso (ovvero l’utilità del bene) e valore di scambio  (ovvero il potere  di acquistare un altro bene) di una merce. L’esempio che riporta è quello dell’acqua che, pur avendo un alto valore d’uso, ha un basso valore di scambio, al contrario del diamante che pur avendo un basso valore d’uso ha un alto valore di scambio. Pur ammettendo che il valore d’uso è essenziale, pre-condizione, per avere un valore di scambio, concentra la sua attenzione sul valore di scambio.
La teoria del valore che enuncia nel suo libro sono in realtà due, nella prima afferma che il valore di scambio di una merce è pari al valore del lavoro contenuto nella merce stessa (teoria del valore-lavoro, che verrà ripresa da Ricardo e Marx). Tale teoria, precisa Smith, vale solo in una fase primitiva dell’economia cioè una fase pre-capitalistica. L’altra teoria del valore esposta, non è del tutto chiarita nel  libro per cui  molti autori danno delle interpretazioni diverse, è che il valore sia determinato dai cosiddetti fattori di produzione (terra, capitale e lavoro) e dal loro reddito e quindi, sostanzialmente, sia derivante dal costo di produzione (“teoria del valore comandato o acquistabile”): «Salario, profitto e rendita sono le tre fonti originarie di ogni reddito cosi come di ogni valore di scambio».[5]
Smith chiarisce ulteriormente che, nel breve periodo, questo valore può oscillare per effetto delle variazioni della domanda e dell’offerta[6] ma, nel lungo periodo, tale valore tende a diventare quello “naturale” ovvero correlato al costo di produzione. Tali teorie, comunque, non risultano soddisfacenti da un punto di vista teorico, come vedremo nelle evoluzioni successive del pensiero economico.
Per concludere su Smith, vorrei sfatare il mito che lo vede come un liberista conservatore, in realtà per i suoi tempi può essere considerato un non tradizionalista. La sua è una visione piuttosto realistica della società, convinto che la classe lavoratrice in quel periodo sia  più debole contrattualmente, non lesinando comunque critiche ai mercanti e padroni manifatturieri:
 I padroni, essendo in numero minore,  possono coalizzarsi più facilmente;
I mercanti e padroni sono comunemente rivolti al loro interesse [...] che all’interesse della società.[7]
Rimane comunque ottimista, e l’evoluzione economica gli darà sostanzialmente ragione, sul fatto che l’aumento della produzione industriale debba portare a un miglioramento delle condizioni di vita anche delle classi lavoratrici.
Si rende conto, altresì, che la divisione del lavoro comporta un peggioramento della qualità lavorativa, ma rimane convinto che il bilanciamento che deve avvenire, tra interessi e atteggiamenti di “simpatia”, possa condurre a un progresso delle condizioni economiche generali della società.





[1] Il titolo completo dell’opera è:  Un indagine sulla natura e le cause  della ricchezza delle nazioni.
[2]A.Smith, La ricchezza delle nazioni, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma.
[3] A.Smith, Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano, 2001.
[4] La produttività in economia è in generale il rapporto tra il prodotto (output) e la quantità di risorse impiegate nel processo produttivo, quindi nel caso del lavoro è il rapporto tra quantità prodotte e numero di lavoratori (Q/L), nel caso dell’altro fattore produttivo, il capitale, la produttività del capitale  sarà il rapporto tra quantità prodotte e capitale impiegato (Q/K).
[5] A.Smith, La ricchezza delle nazioni, cit, cap.V.
[6]Sulla legge  della domanda e offerta, uno degli aspetti fondamentali dell’economia, torneremo più avanti. I termini generali della teoria erano conosciuti anche dagli economisti antecedenti a Smith. La definizione formale e sistematica di tali idee avviene successivamente, in particolare grazie ad Alfred Marshall.
[7]  A.Smith, La ricchezza delle nazioni, cit,cap.VIII.

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