Di libri sull’Europa e l’euro ne sono stati scritti molti, questo di Luigi Zingales, economista italiano che insegna negli Stati Uniti a Chicago, merita di essere letto.
Nella prima parte del libro, Zingales fa una sintesi della storia dell’Unione Europea e dell’euro, mostrandoci come accanto a nobili motivazioni ideali ci sono stati interessi ben più prosaici e pratici nel disegno dell’attuale situazione europea.
Successivamente analizza i pro e i contro della unione monetaria evidenziando i notevoli rischi impliciti nella sua nascita, soprattutto nelle sue modalità di attuazione, frutto di un brutto compromesso tra le esigenze delle due principali nazioni: la Francia e la Germania. Per l’Italia, legarsi mani e piedi all’albero dell’Europa e dell’euro, ha avuto alcuni vantaggi ma senz’altro ha diminuito i gradi di libertà rappresentati da una autonoma politica monetaria. Per l’autore, viste le premesse di come si è realizzata l’unione monetaria, tale costruzione è estremamente fragile e cosi come è non può che finire male se non si ricorre rapidamente ad una serie di modifiche profonde, e l’autore indica alcune proposte in merito. Infine, forse a dimostrazione che in fondo anche Zingales non è convinto che l’euro sia riformabile, analizza il piano B ovvero le modalità migliori per uscire dall’euro per l’Italia e le sue possibili conseguenze.
Nella parte finale, comunque, indica che il problema di fondo dell’Italia non è l’euro, ma la mancanza di crescita della produttività degli ultimi venti anni, di cui indica alcune possibili cause.
Il libro complessivamente mi è piaciuto per lo stile chiaro e un certo equilibrio nelle sue posizioni che sono, comunque, quelle di un economista liberista. Sono d’accordo con l’autore che il problema dell’Italia non sia solo l’euro, che comunque ha delle colpe rilevanti, ma della mancata crescita della produttività, ritengo tuttavia che non abbia approfondito il tema. Credo, infatti, che le motivazioni siano molto più complesse e legate anche ad un mancato rinnovamento delle classi dirigenti italiane (politiche, imprenditoriali, sindacali, ecc.) che hanno perso la capacità di progettare e assistere il cambiamento e, di fatto, bloccato la possibilità rinnovamento della società italiana, impedendole di adattarsi in maniera adeguata al profondo cambiamento tecnologico e di mercato che si è verificato negli ultimi 30 anni.